Sono passati venti anni: è nel 2001 che il «Giorno della memoria» è stato celebrato per la prima volta per legge. Da allora tutti – o quasi – sanno che il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di sterminio nazista di Auschwitz, in territorio polacco. Intere generazioni di studenti lo hanno celebrato nelle loro scuole, amministrazioni comunali lo hanno ricordato nelle aule consiliari, associazioni e istituzioni ne hanno fatto una data del calendario civile della Repubblica. Però, dopo venti anni di applicazione, la legge e il discorso pubblico che ne è derivato conservano alcune ambiguità.

LA DENOMINAZIONE completa della legge 211 del 2000 è «Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Eppure, anche se a venti anni di distanza sembra incredibile, storia e memoria della Shoah – due facce inseparabili di una stessa medaglia – sono un’immissione relativamente recente nella storia repubblicana. C’è stata, prima, una storia senza testimoni, poi una sorta di bulimia della memoria. C’è stato quello che, alcuni anni fa, Anna Rossi-Doria ha definito «il conflitto celato» tra testimoni: la memoria della deportazione politica, militare ed ebraica ha vissuto nel corso del tempo una sorta di «concorrenza sulla memoria» che riguarda anche omosessuali, rom e sinti che pure sono stati oggetto di una politica segregazionista del fascismo e della deportazione e la cui presenza nel dibattito pubblico si afferma timidamente solo in questi ultimi tempi.
«Venti anni sono un traguardo importante e questo va sottolineato con forza – dice Simonetta Della Seta, che non si sottrae al ragionare sulla legge e sui limiti del discorso pubblico che si accompagna alle celebrazioni – ed è proprio la legge che ha permesso una nuova consapevolezza. L’impegno di istituzioni, università, ordini professionali, storici locale, associazioni sportive ha consentito un lavoro di scavo e di ripristino della giustizia. Ha rappresentato una presa di coscienza, un modo di fare i conti con la storia d’Italia relativamente a quella vicenda specifica». Della Seta, per anni direttrice del Meis – il museo dell’ebraismo italiano e della Shoah – è ora collaboratrice dell’Istituto Yad Vashem in Israele ed è nella delegazione italiana dell’Ihra – International Holocaust remembrance alliance, un’organizzazione intergovernativa che riunisce 34 paesi, dedicata all’istruzione, alla memoria e alla ricerca sulla Shoah, fondata nel 1998 su iniziativa svedese. Negli stessi anni della legge è nato anche il Meis: «Si cercava un luogo fisico dove raccogliere questi contenuti di giustizia – spiega Della Seta – Ma la legge che è stata importante anche e soprattutto per il lavoro didattico che si è iniziato a fare nelle scuole ha portato però anche a un parlare ’troppo’ della Shoah. Il rischio è quello di produrre un effetto quasi controproducenti».
Simonetta Della Seta fa parte di una generazione di studiosi e intellettuali che oggi si interroga su come sia stato il lavoro svolto nella società civile in generale e nelle scuole in particolare che sono le destinatarie principali della legge istitutiva. «È stata una legge importante», ripete. E aggiunge: «ora però dobbiamo fermarci e ragionare su ciò che è stato utile e giusto e ciò che possiamo e dobbiamo correggere». Ci sono in particolare alcuni nodi e temi su cui è necessario riflettere: «Questi venti anni corrispondono a un momento particolarmente sensibile per ciò che riguarda l’argomento Shoah, stiamo vivendo la lenta sparizione dei testimoni ma va tenuto conto anche dei cambiamenti geopolitici avvenuti in Europa».

IL RAGIONAMENTO – che riguarda sia il discorso pubblico che la ricerca e la didattica – si sviluppa intorno ad alcune domande fondamentali: «La prima – prosegue Della Seta – è quale sia la rilevanza di quello che è avvenuto durante la Shoah per il presente. Dopo aver ricordato, cosa dobbiamo fare di queste memorie? La seconda riguarda invece cosa ci sia di questa storia da affidare alle generazioni future, mentre la terza si interroga sulle modalità con cui affrontiamo il nodo Shoah: venendo a mancare i testimoni, come vogliamo scriverne la storia? Come la conserviamo senza più la voce dei testimoni che ne rappresenta la memoria? Ultima domanda, ma non per importanza, è quali siano gli strumenti che la Shoah ci offre per affrontare anche altri tipi di male. Non a caso ho posto le questioni in questo ordine perché è indispensabile ragionare sulla differenza tra memoria e storia: possiamo tramandare quella dei testimoni ma non possiamo essere noi stessi testimoni. È un punto fondamentale sia della ricerca storica che della didattica: quando diciamo ai ragazzi che adesso i testimoni sono loro, credo sia giusto fino a un certo punto. Gli studenti che hanno ascoltato i testimoni possono dire di conoscerne la vicenda esistenziale ma non possono esprimersi come se l’avessero vissuta in prima persona».
Spesso i lavori degli alunni nelle scuole hanno, infatti, un carattere molto generale e sono connessi alla deportazione e allo sterminio attraverso legami labili con il proprio territorio, o con la vicenda specifica. Rappresentano, piuttosto, una sorta di diario condiviso che rimanda a un’assunzione di responsabilità rispetto al ’dovere di memoria’. Un dovere in cui il fatto storico si affaccia timidamente ma che accoglie forse proprio quell’incitamento alla testimonianza sollecitato e, forse, imposto dalla legge istitutiva».
«Eppure – prosegue Della Seta – è proprio lo studio della storia e di quello che è successo che offre strumenti straordinari per poter combattere oggi altri mali ma non si può solo enunciare la Shoah come simbolo astratto, si deve capire veramente cosa è stato per poter ragionare sugli altri orrori e opporvisi. Bisogna capire la Shoah e approfondirne lo studio senza usarlo come un simbolo dai significati generici. Mai, come in questo momento, la conoscenza è necessaria, ed è fondamentale che esperti e ricercatori restino indipendenti dalla politica proprio per mantenere un rigore nello studio che non può e non deve essere distorto e manipolato. Questa è davvero la garanzia per tutelare sia ciò che ci hanno consegnato i testimoni sia la documentazione che abbiamo, e ce ne è tantissima. È il momento di raccontare non solo le atrocità ma anche di documentare la vita. Mostrare la forza che è stata necessaria per salvare se stessi e gli altri. Non bisogna solo impaurire i ragazzi, è necessario offrire loro gli strumenti per credere nella vita e nell’essere umano, nonostante tutto».
Sorprende però che, dopo venti anni di celebrazioni del «Giorno della memoria»’ nelle istituzioni e nelle scuole di ogni ordine e grado – e spesso il lavoro inizia con i bambini delle primarie – si registri un aumento di episodi legasti all’antisemitismo.
Secondo la mappa dell’intolleranza redatta da «Vox – Osservatorio italiano sui diritti», a partire da Twitter l’antisemitismo è in crescita anche negli ultimi mesi. La vicenda delle ingiurie alla senatrice Liliana Segre è solo un esempio di questi giorni. Su un totale di tweet negativi riguardanti gli ebrei siamo al 24,81 per cento rispetto al 10,01 per cento dei mesi scorsi. «Cresce – riporta Vox – non solo il numero ma anche il livello di aggressività delle offese contro gli ebrei, dato questo purtroppo in linea con l’andamento generale dell’hate speech (le parole d’odio) su Twitter».

«L’ANTISEMITISMO – spiega ancora Della Seta – è sempre esistito. Risorge e si rafforza quando si attraversano periodi di incertezza. Questa nuova ondata di antisemitismo, quindi, non credo sia dovuta al fatto che abbiamo utilizzato male la legge sul Giorno della memoria, è che insegnare la Shoah non porta automaticamente alla prevenzione dell’antisemitismo anche se, in modo paradossale, quando lo si fa in modo scorretto rischia di offrire degli spunti agli antisemiti. Da alcune parti, proprio per evitare l’effetto boomerang, si suggerisce di evitare il pullulare di iniziative come se fosse una specie di moda, come se ci si volesse pulire la coscienza. Se si tratta solo di creare emozione o di far piangere forse non stiamo facendo bene il nostro mestiere di educatori che invece è quello di offrire strumenti. Io credo sia importante mantenere una dimensione etica e storica di quello che è successo ma non bisogna rendere la Shoah un simbolo vuoto. Proteggiamo la memoria dei testimoni, lo studio, quello che hanno detto loro, le loro parole, i loro diari. Non deve essere più permesso che qualcuno si inventi una storia sua per raccontare la Shoah. Diamo meno e offriamo cose più qualificate. Nelle testimonianze c’è tanta vita, non c’è niente da inventare».