Alla ricerca di un giornalista che lavora per l’emittente tedesca Deutsche Welle, i Talebani hanno ucciso un membro della sua famiglia e ne hanno ferito gravemente un altro. L’identità del giornalista, che ora risiede in Germania, non è stata specificata. Altri suoi parenti sono riusciti a fuggire, mentre i Talebani andavano di porta in porta per cercarlo. «Un omicidio incredibilmente tragico che mostra il grande pericolo in cui si trovano i nostri dipendenti e le loro famiglie in Afghanistan», ha commentato il direttore di Deutsche Welle, Peter Limbourg.

Per aiutare i colleghi in pericolo la Federazione internazionale dei giornalisti con sede a Bruxelles ha dato avvio a un’iniziativa per raccogliere fondi e segnalare nomi, numero di passaporto, telefono e e-mail di coloro che negli ultimi vent’anni hanno collaborato con testate occidentali, affinché sia possibile avviare la procedura per il visto e l’evacuazione dall’Afghanistan. L’obiettivo è segnalare i giornalisti a rischio, tenendo presente che le valutazioni e le decisioni spettano ai governi dei singoli paesi. Nel nostro caso l’iniziativa è portata avanti dalla Federazione nazionale della stampa italiana (segreteria.fnsi@fnsi.it).

Di pari passo, per tutelare la società civile afghana i social media hanno attivato dei meccanismi per impedire ai Talebani di accedere alle informazioni degli utenti. Non sarà più possibile consultare l’elenco degli amici su Facebook e dei contatti su Linkedin in Afghanistan. Diventerà così più difficile risalire alle reti degli attivisti. E si potrà chiudere temporaneamente l’account con un click, in modo che nessuno possa vedere i post e le foto. È sui social media – inclusi Instagram e Twitter – che molti cercano il modo per scappare.

Dei Talebani non ci si può fidare, in nessuna circostanza. I diplomatici dovrebbero tenerlo presente: nemmeno loro sono al sicuro, è la Storia a dimostrarlo. Nel massacro di Mazar-e Sharif dell’8 agosto 1998 i Talebani entrarono nel consolato della Repubblica islamica dell’Iran. Fecero a pezzi il console, altri nove diplomatici e un giornalista. A raccontarlo è Hooman, il nipote del console: «Gli eventi di questi giorni fanno riaffiorare nella mia mente una delle tragedie di famiglia. Molti particolari non mi furono raccontatati per oltre vent’anni. Fino a poco tempo fa non sapevo come i diplomatici e il giornalista iraniano furono fatti a pezzi, le teste mozzate, le parti del corpo staccate per rendere difficoltoso il riconoscimento dei corpi. I colleghi poterono riconoscere gli arti di mio zio perché era un omone alto due metri. In cerca di denaro, i Talebani furono così stupidi da bruciare i documenti che avrebbero invece potuto facilmente decifrare».

Quello che accadde nel consolato fu riportato da un altro dipendente: «Si era infilato nei condotti dell’aria condizionata e, a distanza di giorni, era riuscito a scappare. Vestito da donna, con il burka, era riuscito a rientrare in Iran», racconta Hooman che da parecchi anni vive in Italia. Lo zio si chiamava Karim Heidarian. Membro delle forze di élite dei pasdaran, aveva combattuto nella guerra contro l’Iraq (1980-88) ed era a capo del nucleo antidroga, quello che da decenni combatte il commercio di stupefacenti lungo gli oltre 900 km di confine con l’Afghanistan. «Una vita in incognito, lo zio cambiava identità più volte l’anno. Laureato in Scienze internazionali, al culmine della carriera gli fu offerto l’incarico di console a Parigi ma rifiutò perché preferiva continuare a dedicarsi alla lotta contro la droga. Di fronte alla temuta ascesa dei Talebani, fu nominato console a Mazar-e Sharif per coordinare l’attività di intelligence».

Membro dei pasdaran e agente infiltrato nelle reti dei narcotrafficanti, nel 1998 Karim Heidarian vestiva ormai i panni del diplomatico. Gli iraniani hanno memoria di quanto accadde, perché quel massacro è stato raccontato nel lungometraggio Mazar Sharif del 2015 e alle vittime è dedicato un murales a Teheran. Gli occidentali, invece, non ne hanno alcun ricordo.

Di pari passo, gli iraniani si domandano come mai l’intelligence statunitense non ebbe sentore della Rivoluzione del 1978-79 che portò alla caduta dello scià e all’instaurazione della Repubblica islamica. Quando un gruppo di studenti prese l’ambasciata Usa a Teheran il 4 novembre 1979, si resero conto che nella sede diplomatica c’erano soltanto quattro uomini della Cia e nessuno di loro conosceva la lingua persiana. La stessa domanda se la pongono oggi gli afghani e molti analisti: com’è possibile che gli 007 americani non abbiamo previsto la rapida caduta delle città afghane?