L’articolo della legge italiana che ancora prevede il carcere come pena per la diffamazione aggravata a mezzo stampa è incostituzionale. È un articolo – il 13 della legge sulla stampa del 1948 – che aveva oltre settant’anni, ieri la Corte costituzionale lo ha cancellato. L’ha fatto sulla spinta di una serie di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato il nostro paese per questa arcaica previsione, da Strasburgo giudicata niente di meno che una lesione della libertà di espressione.

La Corte costituzionale ha deciso ieri (presidente Coraggio, relatore Viganò), ma in realtà aveva già deciso il 9 giugno del 2020 in una delle sempre più frequenti ordinanze di «incostituzionalità prospettata», quando cioè aveva dato un anno di tempo al parlamento perché intervenisse con una nuova legge. Perché, disse allora la Corte, solo il legislatore può bilanciare i due principi in gioco, la «tutela della reputazione individuale» e la «libertà di manifestazione del pensiero, in particolare con riferimento all’attività giornalistica». Ma il parlamento non è intervenuto. Anche se non mancano i disegni di legge sull’argomento. Prevedono la cancellazione del carcere per la diffamazione sia il disegno di legge presentato al senato da Caliendo di Forza Italia, sia due disegni di legge presentati alla camera da Verini del Pd e da Liuzzi dei 5 Stelle. Solo il primo è stato esaminato ma non è andato oltre la commissione del senato. E così è arrivata ieri la decisione «telefonata» della Consulta, il replay di quello che era già successo di fronte a un’identica inerzia del parlamento sul fine vita.

La Corte ieri però si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità della legge sulla stampa del ’48 che prevede il carcere da uno a sei anni insieme a una multa pecuniaria nei casi di accertata diffamazione a mezzo stampa aggravata (lo è quando c’è l’attribuzione di un fatto determinato falso). Non ha invece raccolto la richiesta, che pure le arrivava dai tribunali che avevano sollevato la questione di costituzionalità (Salerno e Bari), di cancellare anche l’articolo 595 del codice penale, che prevede il carcere per la diffamazione semplice a mezzo stampa da sei mesi a tre anni ma in alternativa alla pena pecuniaria. Questo perché la Corte costituzionale ha deciso di accogliere l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che facendo salvo il diritto degli stati di determinare le sanzioni penali ha ripetutamente stabilito che la previsione del carcere per i giornalisti si giustifica solo per fatti di particolare gravità che comportano la lesione concreta di diritti fondamentali o costituiscano incitamento alla violenza. Viceversa la minaccia della detenzione costituisce di per sé una coercizione della libertà di espressione, e di stampa, anche quando non dovesse essere materialmente eseguita. Come non lo fu nel caso pilota che ha inaugurato la giurisprudenza in materia della Corte Edu, quello che riguardò due giornalisti rumeni nel 1996. E non lo è stato nemmeno per i primi due casi che hanno comportato una condanna dell’Italia, entrambi del 2013, in cui Strasburgo ha dato ragione prima ad Antonio Ricci e poi a Maurizio Belbietro, condannati entrambi a 4 mesi di carcere per diffamazione. Alla detenzione, seppure domiciliare, è invece arrivato Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi nel 2012 – anche lui da direttore del Giornale come Belpietro e anche lui per aver diffamato un giudice – ma graziato dal presidente della Repubblica Napolitano dopo tre settimane. Anche Sallusti ha ottenuto nel 2019 la condanna dell’Italia per la sproporzione della pena.

Soddisfazione hanno espresso sia la Federazione nazionale della stampa che l’Ordine nazionale dei giornalisti. Ma una volta cancellata o resa ancor più improbabile la prospettiva del carcere, per i giornalisti resta la ben più concreta minaccia delle querele temerarie. Anzi, la (semi) rimozione di un residuo antistorico dall’ordinamento come la pena della detenzione per i giornalisti, rischia di diventare l’alibi per le camere che hanno ampiamente dimostrato di non considerare una priorità la tutela della libertà di stampa. Camera e senato già nella scorsa legislatura, malgrado ben quattro letture parlamentari, non riuscirono ad approvare una legge di sistema (riprodotta nella sostanza nel disegno di legge Verini). E in questa legislatura è arrivato in aula ma è fermo da oltre un anno, al senato, il disegno di legge del 5 Stelle Primo Di Nicola che punta a limitare le querele temerarie, stabilendo che chi agisce con malafede o colpa grave contro un giornalista deve essere condannato a risarcirlo per almeno il 25% della somma che gli aveva ingiustamente chiesto.