È dedicato a uno dei grandi autori del nostro tempo, Giorgio Pressburger, il film documentario L’orologio di Monaco, scritto e diretto da Mauro Caputo, prodotto da Vox, distribuito da Cinecittà-Istituto Luce (proiettato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma).
Non si tratta di una biografia per immagini o didascalie e tanto meno della illustrazione di un’opera culminata di recente nella pubblicazione di Storia umana e inumana (Bompiani), poema in prosa del secolo trascorso e della sua vicenda deragliante, ma si tratta semmai di un viaggio a ritroso, quasi di un avvitamento elicoidale entro il proprio trascorso rivissuto in prima persona, verso quella origine di sé in cui si scopre, per supremo paradosso, come tutte le vite, in realtà, sono intrecciate l’una con l’altra. Che infatti l’identità non sia un dato immobile, ricevuto una volta per sempre, ma piuttosto il risultato di una serie drammatica di apporti, di conflitti e ibridazioni d’ordine storico e culturale, che essa cioè possa essere tutto meno che una metafisica, costituisce la lezione di un film esemplare nel suo nitore stilistico (nella fluidità persino inapparente del montaggio) e toccante per la presenza dello stesso Giorgio Pressburger che ne è, in ogni senso, il protagonista: perché è il corpo dello scrittore a muoversi con passo lento e cadenzato nei luoghi più suoi, a Trieste dove vive da una trentina d’anni, ed è ancora la sua voce a scandire il racconto autobiografico che muove dalle pagine di un libro appunto intitolato L’orologio di Monaco (Einaudi 2003), il quale non allude al famoso carillon della Torre Civica ma a un oggetto molto più domestico, il dono che una vecchia zia fece ai suoi nipoti destinato, come un pegno di gratuito amore, a divenire per chi lo aveva ricevuto un emblema della memoria secolare.

Nato nel ’37 nell’ottavo distretto di Budapest, scampato alla guerra e alla deportazione, fuggito dalla sua città nell’autunno del ’56 (quando «la morte era tragicamente ricomparsa nelle strade» a causa della aggressione sovietica), l’approdo di Pressburger in Italia, da profugo, inaugura un lungo periodo di studio e di ricostruzione del passato personale. Come se fosse costretto a domandarsi, d’acchito: che cosa significa chiamarsi Pressburger? O anche, più generalmente: che cosa vuol dire fare della letteratura e come mai, accostandola, si ha la sensazione di essere travolti e risucchiati «nel grande libro dei destini umani»? Così lo scrittore si mette in viaggio, la sua deriva lo porta a ritroso nello spazio e nel tempo per stazioni che ogni volta si rivelano dei crocevia, vale a dire delle soste solo momentanee che, fatalmente, anticipano delle linee di fuga.

Non è un caso che lo scrittore abbia scelto Trieste a capolinea del proprio cosmopolitismo/nomadismo, come non è un caso che nel film egli si muova con perfetta familiarità nei siti in cui aleggiano figure e suggestioni di una eredità complessa e controversa: la libreria antiquaria che fu di Umberto Saba, i giardini tanto cari a Italo Svevo ma anche a James Joyce (nomi primi di una condizione piccolo-borghese e mitteleuropea costretta a cimentarsi con le più terribili occasioni del secolo), il bellissimo cimitero ebraico, dove la storia pare si depositi nei modi di una foresta pluviale, infine la Risiera di San Sabba che, presa dentro una sequenza dai colori vitrei e glaciali, rievoca l’universo concentrazionario e lo sterminio degli untermenschen (ebrei, minoranze, oppositori politici: sappiamo che lo scrittore ebbe suoi parenti annientati a Bergen Belsen e Auschwitz).

È qui che Pressburger rammenta la sua fuga dalla deportazione, la corsa affannosa con un sacco in spalla pieno di vasetti di marmellata, unico cibo per la sopravvivenza, ed è qui che ci informa come quel frangente fosse stato da lui introiettato e si fosse trasformato, col tempo, in un sogno rovinoso, ossessivo.

Non è dunque il flusso di una memoria rettilinea e ordinata, vale a dire riconciliata, a orientare il decorso della vita ma, al contrario, è la natura accidentale e parziale del ricordo a fornire tanto la materia della narrativa di Pressburger quanto ora a ritmare, di riflesso, la sintassi del film. Il cognome dello scrittore deriva dal toponimo tedesco di Bratislava, poi diramatosi in tutta Europa, dall’Olanda ai Balcani, tracce e documenti dispersi lo fanno risalire ad un’antica schiatta di rabbini poi discesa, attraverso la Germania, in enclaves di piccoli commercianti, di affermati uomini d’affari e di intellettuali.

In almeno due casi, l’indagine genealogica di Pressburger si conclude con una vera e propria agnizione. Imparentato con la sua famiglia era Heinrich Heine, il primo poeta tedesco a cantare la libertà e l’uguaglianza senza possibili aggettivi, colui aveva profeticamente ammonito a non bruciare i libri perché, aveva aggiunto, laddove si bruciano libri prima o poi si bruciano anche gli esseri umani: è il poeta dei Reisebilder e del Buch der Lieder che lo scrittore, precocemente poliglotta, ricorda di avere letto a dodici anni con un trasporto così grande da rasentare la coazione. Ma dai Pressburger viene anche chi, per odio dello sfruttamento, ha dato voce e ha messo in moto enormi masse di diseredati, Karl Marx, che lo scrittore percepisce alla stregua dei grandi fondatori di religioni ricevendone l’opera, al presente, quale suo riferimento essenziale pur avendo conosciuto sulla carne viva la terribile realtà dello stalinismo.

È il corpo medesimo dello scrittore, la sua postura mai invadente, a dare sostanza al racconto, è la grana di una voce laconica, dove le pause si propagano in risonanze del ricordo, a ritmare uno stile tanto scabro e antiretorico, senza essere severo, da risultare fraterno e in più di un caso, specie nei momenti di maggiore esposizione emotiva, da alludere alla forma dell’apologo mite, sapienziale. In quella voce così riconoscibile tuttavia stormiscono molte altre voci e in quel corpo sono incise le tracce di altri corpi. L’identità è l’esperienza totale della vita, anzi è il lascito di ognuno e di tutti, passato e presente, vale a dire sempre compresente, suggerisce col suo passo lieve L’orologio di Monaco.

Quanto al suo protagonista, seduto nella penombra dello studio, fra il riordino di carte talora antichissime, ammette di aver sempre cercato, con un filo di fede e scetticismo, una qualche certezza negli avi e di non averla mai trovata ma confessa, d’altronde, di non avere smesso di cercarla perché tormentato da un pensiero di Giambattista Vico, secondo cui tutte le epoche torneranno e presto gli uomini «si richiuderanno di nuovo ciascuno nelle sue solitudini, com’era all’inizio degli inizi». È per questo che Giorgio Pressburger si vieta di pronunciare la parola identità ed è per questo che tutta quanta la sua opera è scritta a futura memoria.