Ci sono storie nel nostro paese che, più che dimenticate, vengono ignorate, tralasciate o addirittura omesse e occultate. Quella di Giorgio Marincola, per esempio, è stata chiusa per quarantacinque anni dentro a un armadio di Palazzo Cesi, sede della Procura militare di Roma, e ritrovata per caso dal procuratore Intelisano, che nel 1994, durante la ricerca su Enrich Priebke, rinvenne i seicentonovantaquattro fascicoli riguardanti i crimini nazifascisti commessi tra il 1943 e il 1945. Tra questi, il dossier sulla strage della Val di Fiemme, ultimo colpo di coda della furia nazista durante il quale i tedeschi in ritirata uccisero trentasei persone. In mezzo ai cadaveri, il corpo di un giovane mulatto che dopo mille perplessità iniziali, venne identificato come Renato Marino. Un’indagine più accurata rivelò poi che Marino, nato il 23 settembre 1923 a Maddei Uen, nella Somalia italiana, e battezzato Giorgio Marincola, era figlio di Giuseppe Marincola, un militare italiano impiegato nella missione coloniale e di Aschirò Assan, una donna somala. Una volta svezzato, il piccolo Giorgio venne spedito in Italia, dove crebbe e divenne antifascista.

Diverso nel colore della pelle, ma uguale nella scelta della lotta armata per la resistenza all’oppressore, il giovane Giorgio Marincola credette come e più degli altri nella liberazione del suo paese. Qualche mese prima della morte, prigioniero dei nazisti a Biella e obbligato a intervenire durante una trasmissione di Radio Baita, si difendeva dalle provocazioni dei camerati sul perché avesse deciso di combattere per l’Italia, che aveva colonizzato il suo paese d’origine, affermando che la Patria non è un colore sulla mappa, ma è libertà e giustizia, e che non poteva esserci Patria dove c’era una dittatura.

Di queste coraggiose parole si ricorda ancora Mario Fiorentini, partigiano e matematico romano, quando nel 2005 decide di raccontare la storia di Marincola al giovane fisico Lorenzo Teodonio, studioso della Resistenza romana, che insieme a Carlo Costa, laureando in Scienze Politiche, che iniziano a fare ricerche sull’eccezionale biografia del partigiano nero. Teodonio si mette in contatto con l’amico scrittore Giovanni Cattabriga, alias Wu Ming 2, per raccontargli l’incredibile vicenda, e Wu Ming 2, che per uno strano intreccio del destino ha conosciuto Antar Mohammed, nipote di Marincola, un paio di anni prima, dedica un paragrafo alla storia nella riedizione di “Asce di guerra” (Wu Ming e V. Ravagli, Einaudi, 2005). Teodonio e Costa mantengono una fitta corrispondenza con Cattabriga e lentamente si profilano diversi progetti, da una parte quello del saggio storico e dall’altra una narrazione ancora non ben definita, della quale si occuperà “il cantastorie”- tale si definisce- Wu Ming 2. Nel 2009, dopo quattro anni d’indagini, incontri e ricostruzione storiografica, vede la luce “Razza Partigiana” (Carlo Costa e L. Teodonio, Iacobelli, 2008), un saggio storico “reso possibile da una rete d’individui che ha ampiamente supplito alle difficoltà di un lavoro scientifico indipendente”, come ricorda Teodonio. Sin dall’inizio si tratta di un percorso fatto di attraversamenti, sia per dare naturalità a un imponente lavoro di collage di testimonianze, che per rendere tributo a Giorgio Marincola nel modo più completo e autentico possibile.

Dopo la prima lettura del saggio due cose sono chiare a Cattabriga: la prima è che sotto la storia di Giorgio Marincola, eroe dimenticato della resistenza, ce n’è un’altra che vive nell’ombra, ed è quella di Isabella Marincola, sorella di Giorgio, che, ancora viva, sente il dovere e rivendica il diritto di far conoscere la storia del fratello. La seconda è che “Razza Partigiana” è “un racconto emozionante, un testo preciso e dettagliato, ma allo stesso tempo ricco di pathos, di domande rivolte a Giorgio, come se fosse presente e potesse rispondere, come se le pagine avessero il potere di evocarlo” e che quindi, non c’è bisogno di un altro libro che lo affianchi. Cattabriga sceglie un formato insolito e multidisciplinare per far giungere la storia anche al pubblico delle piazze. Si tratta di un reading-concerto da lui scritto e musicato dai suoi collaboratori Egle Sommacal, Paul Pierretto, Stefano Pilia e Federico Oppi, artisti affermati della scena musicale indie bolognese.

Inizia un lavoro testuale che prende vita attorno al saggio storico esistente, andando a frugare nei coni d’ombra e innestando le parti mancanti, rendendo voce anche a personaggi satellite attraverso lettere fittizie e testi autentici, come l’indimenticabile poesia di Lia Albertelli, moglie di Pilo Albertelli, antifascista trucidato alle Fosse Ardeatine, che fu professore di Marincola. Il risultato è un racconto musicato, o un concerto narrativo, nel quale la musica tesse trame cupe e ritmi angoscianti sulla voce di Cattabriga, le cui parole coraggiose si fan strada tra le sonorità che i musicisti hanno creato ispirandosi alla musica popolare somala e a quella italiana.

Anche il reading si chiama “Razza Partigiana”, va in scena per la prima volta nel 2009 e l’anno dopo diventa un CD prodotto da Loop, impreziosito in seguito dal libretto “Basta uno sparo” (Wu Ming2, Transeuropa, 2010). Chi scrive ha avuto il privilegio di assistere al reading di nella suggestiva cornice della Sala Vanni a Firenze, e di apprezzare come l’accompagnamento musicale inasprisca i momenti drammatici e arrotondi quelli più teneri dell’infanzia di Marincola, di come la musica, in sostanza, aiuti le parole. Wu Ming 2 mi conferma che  “Il momento performativo del raccontare una storia è particolarmente interessante.

Un libro è sempre quello, al margine dell’incontro di ogni singolo lettore con la pagina scritta e invece fare uno spettacolo ti dà la possibilità di raccontare una storia in una maniera irripetibile, unica nel suo genere. La musica è capace di portare le storie ad attraversare contesti che altrimenti non attraverserebbero”. Una strategia artistica vincente, quella del reading musicale, fatta per arrivare a un pubblico più vasto. Lo spettacolo è un prodotto molteplice: il codice sonoro, attraversato dalle voci dei diversi personaggi che parlano nella lettura di Cattabriga, avvolge lo spettatore in una dimensione inaspettata nella quale l’ascolto non si dirige esclusivamente alle parole ma anche alla musica. In questo senso la costruzione del reading è in linea con la storia della letteratura che la vicenda di Marincola ha generato: una serie di testi appartenenti a generi più o meno distanti, talvolta intrecciati, e adesso portati a nuova vita in una lettura polifonica dove ogni elemento e materiale narrativo trovano il loro contrappunto nella melodia o nel ritmo.

Non si riesce a dire se la musica sia il sostegno per le parole, o il commento alle scene raccontate nel testo, tanto è solida la compenetrazione e la fusione tra i due elementi. “Le musiche sono state composte in parallelo-spiega Cattabriga-mentre io lavoravo al materiale che ricevevo da Costa e Teodonio, informavo i musicisti sulla struttura dello spettacolo, sulla successione schematica dei quadri, di modo che si facessero un’idea delle atmosfere. Le musiche e i testi si sono incontrati e incastrati, fondendosi tra loro. Tutto quello che era superfluo non ha resistito al vaglio della sala prove”.

C’è una domanda che striscia lungo tutta la narrazione, riguardo alla scelta di Marincola di combattere oltre la Linea Gotica, di andare fino in fondo e di morire tra gli ultimi, una domanda che recita così: “Chi raccoglie i cocci dell’eroe? Chi gli rammenda i calzini? Chi resta mentre lui va verso la fine che ha scelto?”. Secondo Wu Ming2 è Isabella Marincola, la sorella di Giorgio, il personaggio che vive nell’ombra: “Studiando la storia di Giorgio, mi ero accorto che c’era questa figura di donna, Isabella, che aveva avuto una vita più lunga e, sebbene lottasse con altre armi, altrettanto combattiva ”.

Giovanni la incontra per la prima volta nel 2009 e si accorge ben presto che la sua è una storia completamente diversa da quella di Giorgio: cacciata di casa a vent’anni dalla moglie italiana di suo padre, Isabella posa come modella per mantenersi, fino ad approdare sul set cinematografico di “Riso amaro”, dove appare nel ruolo secondario di una delle mondine. Isabella torna a Mogadiscio negli anni ’60 ma senza mai imparare il somalo e alla caduta di Siad Barre, si rifugia di nuovo in Italia, dove vive il figlio Antar Mohammed, che studia a Bologna e si batte per ottenere la cittadinanza italiana.

Nella vicenda di Isabella ci sono tutti gli elementi umani e storici tipici dei romanzi wuminghiani; gli incontri con Cattabriga s’intensificano e i due scrivono le prime pagine del romanzo a 4 mani. Isabella però muore nel 2010 e “Timira”(Wu Ming2 e Antar Mohammed, Einaudi, 2012) viene portato a termine con il figlio Antar. La “polifonia” letteraria e artistica generatasi attorno alla vicenda di Marincola trova il punto più alto in un romanzo che usa diverse voci e persone narrative, che mischia documenti autentici con la finzione e che sconvolge continuamente i tempi e i luoghi dell’azione, spaziando dal 1937 al 1991 e da Roma a Mogadiscio.

Un romanzo meticcio, come recita il sottotitolo, tributo finale a un uomo che combatté per il nostro paese fino all’ultimo, e alla sorella, in fondo probabilmente la sua vera famiglia, la figura che lo univa con le sue radici somale, che lo aspettò invano e che visse, in buona parte, per raccontarlo. L’eccezionalità della vita del partigiano nero va oltre la sua stessa storia non solo per aver generato narrazioni transmediali, sospese tra musica e letteratura alta, tra il saggio storico-biografico e il giornalismo d’inchiesta, ma anche per essersi alzata a esempio immortale di un impegno civile ed etico senza confini nazionali né bandiere, da leggere sempre con un occhio rivolto agli affetti, alla storia dei sentimenti profondi, che molto spesso, forse fortunatamente, non segue la logica dell’eroe e della vittoria a tutti i costi.