In scena ci sono tre ragazzi (Sylvia De Fanti, Xhulio Petushi, Gabriele Portoghese) coi loro desideri perduti, pensavano di fare musica, di correre più forte del mondo, di arrivare da qualche parte, di amare, divertirsi, essere speciali. E invece dieci anni dopo si sono persi tra loro e con sé stessi, risucchiati nella routine di lavori precari, o più stabili ma detestati, in piaceri che si sono spenti, nell’ostinazione a voler essere sempre uguali fino a non riconoscersi più. Eccoli però di nuovo insieme per una notte, quella dei dieci anni dalla morte del loro amico più caro, a cercare di fare un passo avanti, o almeno a restare dove sono. Senza farsi troppo male.

All’origine di Wasted il nuovo lavoro di Giorgina Pi con la sua compagnia Bluemotion (fino al 26 al teatro India di Roma) c’è il testo di Kate Tempest, poetessa, rapper, drammaturga inglese – nella traduzione di Riccardo Duranti – che l’autrice ha riadattato all’interno di un solo luogo, una vecchia sala prove, spostando in avanti l’età dei protagonisti, qui dei trentenni come tanti altri nel mondo globale. Romana, tra i fondatori dell’Angelo Mai di Roma, dopo Caryll Churchill, di cui ha portato in scena Settimo cielo Giorgina Pi continua la sua ricerca sulla autrici inglesi contemporanee, quelle nella cui opera scorrono conflitti e sentimenti del presente. «In questo momento si parla tanto delle generazioni più giovani, del precariato, dei cervelli in fuga, dei figli che non si fanno ma il dato è sempre statistico e quasi mai umano. Mi mancava e l’ho trovato nella scrittura di Kate Tempest» dice.

In che modo?
Lei è un’artista speciale, che merita di essere diffusa il più possibile; è una drammaturga, una poetessa, una rapper, ma è anche una studiosa del teatro greco e per questo riesce a «tradurre» il coro della tragedia nella forma del rap. Mi piace molto la sua capacità di utilizzare questa figura retorica frontalmente, per dare a ciascuno la parola – come appunto come accade nel rap. La sua poesia ha bisogno di ritmo, cerca il volume della voce, mescola flussi di coscienza, musica, quotidianità, sa rendere vivi i suoi personaggi.

Sulla scena hai utilizzato dei filmati, che sembrano quasi una memoria del passato, e la musica dal vivo.
Quest’ultima c’era anche in Settimo cielo, stavolta visto che uno dei protagonisti è un musicista mi sembrava che restituisse meglio gli stati d’animo che si raccontano – tanti miei amici suonano e vivono gli stessi condizionamenti. La musica fa parte dei nostri spettacoli, e di questo in modo particolare se pensi che abbiamo iniziato a svilupparlo in una residenza musicale. Per quel che riguarda la parte video può essere vista nella funzione di rapporto tra passato e presente ma anche tra conscio e inconscio, nel ricordo si tende spesso a mitizzare.
Quale è stata invece la difficoltà maggiore rispetto a un testo che tra l’altro ha un’ambientazione connotata, Londra, in una realtà specifica?
Ho cercato di suggerire l’immagine di una città più generica quale potrebbe essere una delle molte in Europa restringendo la circostanza temporale in una notte e all’interno di un unico spazio. Tutto questo rimanda alla scommessa che ho sentito appena ho letto il testo: il fatto cioè che dovevo spostare di qualche grado il suo punto di vista per riuscire a metterlo in scena, e trovare la misura di questo spostamento è stata la parte più difficile.

Si sta discutendo molto della parità di gender nei salari, nelle opportunità… Come è nel teatro la situazione?
Forse perché – drammaticamente – non conta nulla il teatro permette alle donne una maggiore libertà di fare ciò che vogliono in diversi ruoli, di scegliere i testi da portare in scena. Questo non significa che tutto è perfetto, anzi, i discorsi sull’equità nelle paghe o nei ruoli si affrontano raramente. Diciamo che nonostante molta arretratezza si sta muovendo qualcosa, se poi penso a un’esperienza come l’Angelo Mai, lì la discussione è davvero costante.

A proposito: quanto ha contato per te crescere artisticamente all’interno di una realtà come l’Angelo Mai?
Direi il 99.9%, e non potrebbe essere diverso perché stiamo parlando di uno spazio indipendente, in cui si può sperimentare, dove si fa crescere la fantasia, che ti dà coraggio quando stai per mollare tutto. Un lavoro come quello su Caryll Churchill ha preso forma in un percorso condiviso con altri, penso a Paola Bono… E questo confronto per me è fondamentale, è la parte che manca nei teatri istituzionali al di là della buona o cattiva gestione, mentre imparare a vivere in una dimensione collettiva per fare teatro è fondamentale.

Una proposta?
Aiutare spazi come questo a crescere, non chiuderli, non lasciarli vivere in una precarietà assoluta che non permette progettazione. Ci vorrebbero finanziamenti più regolari, una disponibilità economica e non solo bandi che non si possono fare perché comunque sei in una situazione irregolare. Bisogna fidarsi del lavoro che fanno anche su scala nazionale.