Nel 2011, Giorgia Del Mese si era presentata sulla scena indipendente italiana con il disco, Sto bene (Pains Records). Esordio felice, seguito a riconoscimenti come il Premio Bindi 2010 e l’apertura del Premio Tenco 2011. Di lei avevamo scritto, elogiandone più che convinti la capacità di unire a morbido rock e ballate per chitarra acustica, versi mai in tentazione di immagini facili e parole tanto ad effetto quanto vuote.

Di Giorgia, oggi, torniamo a scrivere, dopo aver ascoltato il suo lavoro appena uscito, Di cosa parliamo, (RadiciMusic). E l’ascolto non solo conferma i positivi giudizi già espressi, ma registra un ulteriore e lungo passo in avanti compiuto da questa artista salernitana, che Firenze e i suoi musicisti hanno adottato. Intorno a lei si sono radunati Alberto Mariotti, in arte King of the Opera, ormai ben più di una giovane promessa; Paolo Benvegnù, Fausto Mesolella, Alessio Lega, Andrea Franchi, insieme ai compagni di sempre, il bassista Lorenzo Forti e un ispirato Bernardo Baglioni alla sei corde.

La voce della cantautrice, attraversata da una timbrica profonda che le conferisce sicuro fascino, possiede una prerogativa fondamentale: quella di essere la sola possibile per cantare ciò che l’ispirazione ha messo in pagina sullo spartito. Ascoltatela mentre in Agosto (la traccia più luminosa del disco) chiede a qualcuno: «Vienimi a prendere/agosto si è ubriacato/chiamo e non mi risponde/E poi si offende/se dico che fa caldo/e lui si sente novembre».

Oppure ironizza in Spengo: «Ma colleghiamoci adesso/con lo zoo di Berlino/Una mamma orsa ha adottato/uno scoiattolo albino/Poco distante lo scontro/di un centro sociale/Ma è un ottantenne che urla/Voglio la mia pensione». E, ancora, scaccia l’agguato della stanchezza di un amore in Imprescindibili, duetto d’artista con Paolo Benvegnù: «E siamo imprescindibili/in questa casa vuota/vuota che rimbomba/Ci condanna e ci inchioda/la felicità». Nessun altra voce potrebbe restituire a queste immagini altrettanta forza espressiva. Acustica ed elettronica, percussioni e archi, stendono il tappeto sonoro. La sua trama continua ad essere quella di Sto bene, ma anche qui si avverte netta la ricerca di strade nuove senza tradimenti o incertezze rispetto alle scelte originali.

La partenza è affidata al rock scandito di Stanchi, poi ci si adagia sulla morbidezza melodica di La mia nuova casa, smentita però dalle parole; l’amarezza sorridente ma non troppo di Alla rovescia si divide tra accenni a richiami latini quasi sussurrati e affermazioni che hanno bisogno, di nuovo, del rock: «La pace armata non è un ossimoro/ma una birra analcolica/quando hai voglia di bere/e quella normale fa male». Avanti così, dentro un percorso che, al termine, impone qualche domanda. Riusciranno musicisti di indubbio valore qual è Giorgia Del Mese, a meritarsi la luce di un riflettore che non sia luce illusoria? Riusciranno, Giorgia e tanti altri musicisti, a rendere degno di una manciata di notorietà ciò che consegnano a un album e diffondono in una miriade di piccoli concerti? Bob Dylan cantava di una risposta nel vento. E il vento di gran parte del mercato discografico pare, per molte ragioni, soffiare contro. Ma, proverbialmente,la speranza deve essere l’ultima a morire.