Descritte da Re Abdallah alle Nazioni Unite come un esempio di democrazia e stabilità, in una regione devastata da guerre sanguinose, e approvate ieri in via preliminare dagli osservatori internazionali, le elezioni del 20 settembre per il rinnovo del Parlamento giordano non hanno prodotto alcuna sorpresa clamorosa. Il Fronte Islamico di Azione (FIA), ossia i Fratelli Musulmani (ufficialmente fuorilegge), tornato a partecipare al voto dopo un boicottaggio durato nove anni, sarà il principale gruppo politico nella Camera Bassa (i membri del Senato, la Camera Alta, sono nominati dal re) ma ha fallito l’obiettivo dei 20 seggi che, secondo i sondaggi svolti nelle ultime settimane, sembrava alla sua portata. Lo spoglio, a dir poco lento e non ancora definitivo ieri pomeriggio, a quasi 48 ore dalla chiusura delle urne, assegnava agli islamisti 15 dei 130 seggi del Parlamento. Un insuccesso parziale che non può essere spiegato solo dalla legge elettorale che favorisce le circoscrizioni rurali, dove sono forti i sostenitori della monarchia, e non quelle dei centri urbani dove il FIA ha le sue roccaforti (in particolare ad Amman e Zarqa). Da considerare è anche il fatto che dei 15 eletti delle liste di “Alleanza Nazionale per la Riforma” presentate dal FIA, solo 10 sono membri effettivi della Fratellanza. Gli altri appartengono a formazioni politiche alleate.

«Occorre tenere presente che diversi candidati di spicco del FIA come Ali Otoum, Jaafar Hourani, Wael al Sakka e Murad Adaileh, non sono stati eletti. E questo è molto importante oltre che sorprendente», diceva ieri al manifesto il giornalista Mohammed Ersan, direttore dell’emittente indipendente Radio Balad. È probabile, aggiungeva, che molti dei voti che i sondaggi della vigilia assegnavano al FIA in realtà siano andati a liste islamiste rivali, formate da ex membri della Fratellanza usciti di recente dall’organizzazione per allearsi con la monarchia e gli apparati di sicurezza. I risultati inferiori alle aspettative indicano anche un inizio di declino per il FIA. La Fratellanza islamica, ritenuta la forza islamista di maggioranza di molti Paesi arabi, ha subito nella regione colpi molto duri negli ultimi anni, dopo gli iniziali successi politici ed elettorali ottenuti del 2012 e del 2013, in seguito alla “primavera araba”. Il più grave è stato golpe militare in Egitto a danno del presidente e fratello musulmano Mohammed Morsi. Battute d’arresto che potrebbero aver radicalizzato, almeno in Giordania, una parte dell’elettorato spostandolo dall’islamismo “moderato” del FIA ai salafiti, ormai molto influenti nel Paese, e altre formazioni più radicali (jihadisti inclusi).

I progressisti hanno ottenuto una manciata di seggi ma sono significative le 10mila preferenze ottenute da Khaled Ramadan, il capolista ad Amman di “Maan” con un programma fondato sulla parità di genere, la difesa del lavoro e la sepazione tra Stato e religione, temi che hanno infiammato un dibattito elettorale che si è rivelato più importante delle stesse votazioni. Anche le donne giordane hanno qualche buon motivo per rallegrarsi. Due sono state elette oltre la quota minima di 15 seggi fissata della legge elettorale. Da segnalare infine la mancata rielezione di alcuni storici pezzi da novanta della politica locale, come l’ex speaker del Parlamento Saad Surur.

Tuttavia il dato più importante di queste elezioni resta la scarsa affluenza alle urne. Ha votato appena il 36% degli elettori. «Il disinteresse nei confronti delle votazioni – spiega Mohammed Ersan- è frutto della consapevolezza dei giordani che i poteri veri, quelli che contano, non appartengono al Parlamento ma restano saldamente nelle mani della monarchia e dell’esecutivo».

E mentre in Giordania mercoledì e ieri si contavano le schede elettorali, a Ramallah la Corte Suprema dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) rinviava al 3 ottobre ogni decisione sulla sospensione (decretata lo scorso 10 settembre) delle elezioni amministrative in Cisgiordania e Gaza, «al fine di consentire a tutte le parti coinvolte di presentare i ricorsi». A questo punto, anche con un via libera (improbabile) il 3 ottobre dei massimi giudici dell’Anp, il voto fissato per l’8 ottobre verrebbe comunque posticipato di alcuni mesi (per anni temono molti). La commissione elettorale palestinese ha già bloccato la macchina organizzativa. Hamas parla di “complotto” di Fatah, il partito rivale e spina dorsale dell’Anp, preoccupato dalla possibilità (concreta) che il movimento islamico conquisti l’amministrazione di numerosi centri abitati della Cisgiordania dopo aver preso nel 2007 il controllo pieno di Gaza. Accusa che Fatah respinge, denunciando la squalifica da parte delle Corti di Gaza di cinque delle sue nove liste.