«Occorre sapere che il Grande Mughal ha sette magnifici troni, uno interamente coperto di diamanti, gli altri di rubini, smeraldi, o perle (…) sopra il baldacchino, che è a volta e di forma quadrangolare, si trova un pavone con la coda spiegata fatta di zaffiri blu e altre pietre multicolori, il corpo d’oro intarsiato di pietre preziose, e con un grosso rubino in mezzo al petto, dal quale pende una perla a forma di pera di cinquanta carati o giù di lì». Così Jean-Baptiste Tavernier descrive nel 1676 il «Trono del pavone» sul quale era solito prendere posto l’imperatore Shah Jahan durante le udienze. Celebre per aver fatto erigere il Taj Mahal – tomba per la sua adorata moglie Mumtaz, morta nel 1631 dando alla luce il loro quattordicesimo figlio – Shah Jahan, il cui nome persiano significa «signore del mondo», portò l’impero Moghul al suo apice. Fu un imperatore colto, committente visionario ed entusiasta con una grande passione per i gioielli.
Purtroppo sia il trono che gran parte del Tesoro Moghul furono saccheggiati, e in seguito smembrati, durante l’invasione di Delhi del 1739 da parte del sovrano di Persia Nadir Shah. La magnifica e rarissima collezione dello Sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani – che è ancora possibile visitare al Palazzo Ducale di Venezia fino al 3 gennaio – sembra riesumare questi antichi tesori, dando vita a un’atmosfera da Mille e una notte. Quale migliore ambientazione per ospitare un tesoro di così grande valore che l’immensa Sala dello Scrutinio, dove sfarzo, eleganza e ricchezza regnano sovrani! Le pareti affrescate dai maggiori pittori rinascimentali con le vittorie navali dei veneziani in oriente sono accostate agli splendidi gioielli asiatici, esaltando l’antico connubio tra Occidente e Oriente.
Come spiega il curatore Amin Jaffer, lo Sceicco del Qatar ha impiegato ben sette anni per accorpare questa splendida collezione di circa trecento monili. Essa rispecchia i cambiamenti storici e culturali propri dell’India, coprendo un arco di tempo che va dall’impero Moghul (1526) a quello britannico (1858). Partendo dai gioielli Moghul fino ad arrivare a produzioni indiane ed europee contemporanee ispirate alla tradizione del subcontinente asiatico, Al Thani ha voluto far emergere l’eccellenza dell’arte orafa indiana e l’influenza che questa ha avuto sulla moda occidentale.
La mostra esordisce con una raccolta di gemme tra le più importanti al mondo, in larga parte provenienti dalle miniere di Golconda; prima fra tutte l’Arcot II appartenuta in passato alla regina Carlotta, consorte di Giorgio III. Non manca neanche l’Occhio dell’idolo, il più grande diamante azzurro tagliato esistente, con un peso di ben 70,2 carati. Tra i preziosi gioielli viene ad aggiungersi una serie di meravigliosi smeraldi incisi o intagliati a rilievo e spinelli con iscrizioni dinastiche, tramandati di generazione in generazione come da tradizione timuride. Una seconda sezione è dedicata al cristallo di rocca e alla giada. Quest’ultima considerata molto preziosa, era usata per oggetti di lusso come coppe, vasi o cucchiai da oppio. Si credeva avesse proprietà apotropaiche, proteggendo chi la portava da maledizioni e malattie. Oltretutto, pare favorisse la vittoria nelle battaglie, motivo per il quale molte delle else dei pugnali erano scolpite in questo materiale.
Un’ampia parte della mostra è riservata agli oggetti di corte realizzati con la tecnica indiana del Kundan, che consisteva nell’incastonare le pietre preziose con fogli di oro puro senza l’uso di griffe. L’utilizzo cospicuo dello smalto testimonia, assieme ad altri oggetti, l’interesse dei Moghul per l’oreficeria europea. Ad esempio il piccolo ciondolo rappresentante Nagadevata, il dio serpente, composto da una grande perla, vetro e gemme, ricorda i gioielli rinascimentali nei quali le perle barocche di forme particolari venivano usate per costituire il busto di creature mitiche. La mostra prosegue con uno spazio dedicato ai simboli e agli ornamenti della regalità, destinati soprattutto agli uomini. Ornamenti per turbanti, bracciali e girocollo simboleggiavano infatti la potenza regale, la ricchezza e il rango sociale. Solo un’esigua parte dei monili presenti, molto meno appariscenti rispetto a quelli maschili, era appartenuta a donne come: orecchini, cavigliere, anelli da naso etc.
Dopo la costituzione dell’impero anglo-indiano nel 1858, l’influenza della gioielleria europea è sempre più evidente sia nella montatura a griffe che nel taglio dei diamanti, come nella più tarda preferenza del platino all’oro. Lo testimonia la parte espositiva che ospita le creazioni commissionate perlopiù da maharaja, nawab o nizam a importanti maisons occidentali. Tra queste spiccano Cartier, Lacloche Frères, Harry Winston o Van Cleef & Arpels che utilizzavano gemme indiane per creare innovativi gioielli dal gusto moderno ispirati ai tradizionali ornamenti del subcontinente. Questa moda permane fino ai giorni d’oggi ed è evidente nei gioielli di gusto contemporaneo di Bulgari, Bhagat e JAR che concludono la mostra. Chi avrebbe mai immaginato che il «nababbo», tanto snobbato dai suoi connazionali aristocratici, abbia dato il via, senza volerlo, a quell’inesauribile e preziosa produzione di oreficeria europea ispiratasi ai vistosi gioielli indiani che sua moglie ostentava nei salotti londinesi di fine ottocento?