«Stiamo ancora imparando a essere i contemporanei di Joyce», scrisse il grande biografo americano Richard Ellmann, nell’introduzione alla sua monumentale biografia pubblicata nel lontano 1959. Quella di Ellmann è un’affermazione a tutti gli effetti valida ancora oggi: infatti gli studiosi di Joyce continuano a sfornare saggi, traduzioni, edizioni critiche (e non), nonché inedite interpretazioni di e su quanto scritto e prodotto dal romanziere più complesso del ventesimo secolo (solo William Shakespeare ha saputo sollecitare e ispirare più attenzione e passione critica di Joyce). L’Italia, paese importantissimo per Joyce sotto molti punti di vista (diceva, fra l’altro, di amare Dante quanto la Bibbia e fu anche molto influenzato dal giovane D’Annunzio), continua a giocare un ruolo rilevante nella cosidetta Joyce industry dell’era della globalizzazione.

Recentemente, in occasione del centenario della pubblicazione del più importante bildungsroman del periodo del Modernismo, Un ritratto dell’artista da giovane (celebrato in Italia, fra l’altro, dalla bella traduzione di Franca Cavagnoli, recensita nella pagina accanto) è uscita una nuova edizione di tutti gli scritti «non-fiction» del grande irlandese: James Joyce Lettere e saggi (il Saggiatore, pp. 1101, euro 75,00), a cura di Enrico Terrinoni, già noto per la sua ricca e divertente traduzione dell’Ulisse, pubblicata nel 2012 da Newton Compton, e attualmente impegnato in un’impresa ancora più ambiziosa, la traduzione – assieme a Fabio Pedone – di Finnegans Wake (per Mondadori).

Il volume delle lettere e dei saggi di Joyce ci fornisce un’utilissima e ampissima versione della sua biografia, narrata in prima persona attraverso missive che coprono tutto l’arco della sua vita spesso frustrata, difficile, tormentata, vissuta in decine di case diverse fra Dublino, Pola, Trieste, Roma, Zurigo, Parigi, e Londra. Le prime lettere segnalano l’ambizione del giovane scrittore e la centralità che Henrik Ibsen ebbe nella sua concezione del ruolo dell’artista: il diciottenne Joyce volle subito identificarsi con un gigante della letteratura europea e distanziarsi dagli scrittori suoi contemporanei, quelli della Rinascita Irlandese capitanata da W.B. Yeats. Non a caso, il primo articolo pubblicato da Joyce fu una recensione dell’opera di Ibsen Quando noi morti ci destiamo sulla prestigiosa «Fortnightly Review».

Ibsen lesse l’articolo (anch’esso pubblicato in questo volume) e inviò una lettera di ringraziamento al giovane Joyce, che rispose commosso: «Illustre Maestro. Le scrivo per inviarLe il mio augurio in occasione del Suo settantatreesimo compleanno e per unire la mia voce ai cori di auguri che Le giungono da tutto il mondo… Difficilmente potrò esprimere la commozione che mi ha causato il Suo messaggio. Sono giovane, molto giovane, e forse il racconto di certi scherzi giocati dai nervi La farà sorridere. Ma sono sicuro che se riandrà nella Sua vita al tempo in cui era un laureando all’università come lo sono io, e se penserà a quel che avrebbe significato per Lei aver meritato una parola da chi era tanto importante per Lei quanto Lei lo è per me, capirà quanto ho provato».
L’ultima lettera della raccolta – e probabilmente l’ultima lettera scritto da Joyce – è per il fratello Stanislaus, colui che aveva fatto così tanto per sostenere lo scrittore intellettualmente, moralmente, e economicamente prima a Dublino, poi, per dieci lunghi anni cruciali a Trieste, quando si alternava fra vari lavori e vocazioni. Joyce non fu solo uno scrittore, infatti, ma anche un «mercante di gerundi», come disse di lui Italo Svevo. Insegnò alla Berlitz School, fu imprenditore cinematografico, cantante lirico (aveva una bellissima voce tenorile), e giornalista (in primis, per Il Piccolo della Sera). Questa lettera al fratello dimostra un lato di Joyce forse troppo spesso trascurato dai critici: quello di un uomo che pur essendo certamente preso da se stesso e dalla sua arte era anche capace di gesti di generosità.

Come cittadino britannico in Italia, Stannie, troppo spesso maltrattato dal grande fratello, era stato costretto a lasciare Trieste in seguito all’entrata in guerra dell’Italia e Joyce gli forniva una lista di persone che avrebbero potuto aiutarlo. La lettera è datata 4 gennaio 1941 e Joyce morì a causa di un’ulcera duodenale perforata una settimana più tardi, il 13, da solo in un ospedale a Zurigo.

Ora, una lettura delle tante lettere tradotte in questo volume conferma quanto il materiale che si trova nelle opere nasca propria dalla sua vita privata, domestica, familiare e dalla comunità Dublinese dove era cresciuto.

Cinquant’anni dopo l’edizione delle lettere uscita nel 1966 per i tipi della Mondadori e curata dal grande Giorgio Melchiori, il volume del Saggiatore – frutto di un bel lavoro di squadra – mescola alcuni brevi inediti (in italiano) di saggistica, originariamente scritti in inglese da Joyce, con le lettere già scelte da Melchiori, riviste e ammodernate, gli scritti italiani (principalmente i nove articoli sull’Irlanda per Il Piccolo della Sera di Trieste e le conferenze tenute all’Università popolare di Trieste), tutti gli scritti inglesi, anche questi per la gran parte già pubblicati in italiano nel Meridiano – come ad esempio «Il giorno della plebaglia» (1901) e «Il nuovo dramma di Ibsen» (1900) – ma anche tutte le recensioni vergate a Parigi nel 1903 e finora inedite in Italia. Le eccellenti traduzioni dei saggi sono tutte nuove, a cura di Sara Sullam, la giovane studiosa che ha anche tradotto le epistole originariamente scritte in francese e tedesco. Per le lettere, invece, i curatori hanno per lo più mantenuto le versioni originali di Giorgio e Giovanni Melchiori e di Renato Oliva, riviste tuttavia con cura dalla triestina Francesca Scarpato.
I blocchi di lettere, che nell’edizione Melchiori erano dodici, ora sono soltanto cinque – una scelta sicuramente più razionale –  e si presentano con nuove introduzioni, tranne per la sezione del periodo parigino, per cui è stato deciso di mantenere il testo di Melchiori (è altresì vero che quello trascorso nella capitale francese rimane il periodo meno revisionato dai critici e biografi joyciani, ancheperché copre gli anni della lunga e sofferta stesura di Finnegans Wake): le nuove introduzioni ai vari blocchi delle lettere sono opera di Enrico Terrinoni, Franca Ruggieri e Francesca Scarpato.

Nel complesso il volume può essere considerato un utile updating, che provvede a una importante serie di correzioni, alla necessaria modernizzazione e a un valido ampliamento rispetto al volume curato da Melchiori, il che nulla toglie allo straordinario lavoro del curatore e della sua squadra. Terrinoni ha ritenuto opportuno sostituire le introduzioni ai blocchi di lettere firmate da Melchiori con nuovi testi che offrono letture molto più aggiornate; e ha scelto di mantenere le tante note dello studioso romano ai testi delle lettere stesse, aggiungendone tuttavia quasi trecento di sue e fornendo al lettore dati e elementi che era impossibile conoscere negli anni sessanta. I testi dei saggi inglesi e degli scritti italiani sono stati tutti annotati ex novo da Sara Sullam, che ha a sua volta curato centinaia di utilissime note, facendo spesso riferimento alle edizioni già uscite in inglese e francese e curate, rispettivamente, da Kevin Barry e da Jacques Aubert.

L’imponente tomo curato da Terrinoni costituisce senza dubbio uno strumento utilissimo per i critici e i lettori di Joyce in Italia: per la prima volta, infatti, mette a disposizione tutti gli scritti non letterari di Joyce, nonché una buona metà delle sue lettere attualmente in commercio. È un peccato, tuttavia, che l’editore non abbia voluto (o potuto) acquistare i diritti delle lettere integralmente pubblicate in inglese da Faber, bensì solo quelli di ciò che già era stato pubblicate da Mondadori: dunque, anche questa edizione, in realtà, non può che essere provvisoria e transitoria, tanto più che anche in lingua inglese solo la metà delle lettere scritte da Joyce (che sono più di tremila) sono state pubblicate, pur essendo già al lavoro una squadra di curatori per la Oxford University Press, che nei prossimi dieci anni dovrà curare una nuova edizione dell’epistolario in cinque volumi (Complete Letters).

Dunque, è un ritratto ricco a tutto tondo di Joyce uomo e scrittore non letterario quello che emerge un’attenta lettura delle oltre mille pagine di cui si compone il volume, anche se le lettere, così come i saggi, sono in gran parte di argomento letterario (e spesso leggiamo delle difficoltà che Joyce incontrò nel trovare editori per le sue opere). Continuano a mancare in italiano le cosiddette dirty letters, ovvero le epistole intime scritte a Nora e viceversa, ciò che rende il ritratto di Joyce compagno e marito in qualche modo parziale.

Ricco e suggestivo è il profilo dell’artista e dell’importanza che le lettere rivestirono nella sua vita e nelle sue opere offerto dalla introduzione di Terrinoni, che si sofferma in particolare sulla comicità di Joyce e della sua scrittura (tratto che aveva già colto e marcato nella sua bella traduzione dell’Ulisse) descrivendo puntualmente il rapporto di odio-amore che Joyce aveva con l’Irlanda (anche se l’affermazione che il dublinese non volle mai il passaporto irlandese perché «gran parte dell’isola» era «ancora sotto il giogo inglese» sembra un po’ azzardata, visto che Joyce preferì tenersi il passaporto inglese in primo luogo perché il tipo di stato-nazione che l’Irlanda stava diventando non gli piaceva affatto), mentre trova anche lo spazio per indagare in modo originale e incisivo il ruolo di Joyce critico letterario.

Qualche lacuna il volume la esibisce nell’illustrare il ruolo che Trieste ricoprì nella vita e nelle opere di Joyce: perché dedicare solo una pagina dell’introduzione ai due movimentati anni fra Pola e Trieste (1904-6), e dieci pagine (anche se significative, originali e interessanti a firma Franca Ruggieri) all’infelice soggiorno romano? Perché inserire un cautelativo «forse» nella frase «Trieste, che fu per Joyce quanto a importanza seconda forse soltanto a Dublino», quando il fatto che nessun altra città, con l’ovvia eccezione di Dublino, giocò un ruolo così determinante nella vicenda biografica e artistica di Joyce è ampiamente assodato e documentato?

Le divertenti lettere a Svevo, un po’ in italiano ma anche nel dialetto triestino, testimoniano non solo l’affetto che lega queste due grandi figure del Modernismo ma anche il genuino attaccamento di Joyce per la città che chiamò «la mia seconda patria» e «la nostra bella Trieste» nonostante le difficoltà che dovette affrontare durante gli anni triestini.

Qualche dubbio suscitano anche alcune scelte editoriali. Sarebbe stato più opportuno, forse, disporre i saggi in ordine cronologico, e – anziché iniziare con quelli italiani del 1907 – cominciare con i primi scritti in inglese, risalenti al 1897 («Mai fidarsi della apparenze»). Così, il lettore non avrebbe trovato le bozze di una conferenza vergata in italiano, ma mai pronunciata a Trieste, sul poeta irlandese più stimato da Joyce, James Clarence Mangan, cento pagine prima di leggere la versione originale della conferenza stessa, tenuta a Dublino nel 1902.

La mancanza di una vera introduzione ai saggi è davvero inspiegabile e non del tutto rimediata dalla bella «Nota della traduttrice (dei saggi). Ritratto del saggista da giovane» che li segue. L’introduzione complessiva al volume intero a firma Terrinoni è vivace e meditata e costituisce un gran bel saggio di apertura, ma altrettanto utile sarebbe stato, per aiutare il lettore a orientarsi e comprendere, una pagina o due di spiega sulla logica (e magari anche i limiti editoriali) che ha dato forma a questa specifica edizione di scritti joyciani.

James Joyce. Lettere e saggi, infatti, rimane un volume un po’ ibrido, per lo più basato su traduzioni che hanno cinquant’anni di vita: certamente rinfrescate e ammodernate in alcune parti (tuttavia i cambiamenti non sono segnalati) e con un misto di annotazioni già edite e di altre nuove e aggiuntive.
E sebbene il volume corregga molti errori e sviste – il che è sempre un gande merito delle nuove edizioni – ne introduce di altri e di nuovi (come «Sidney Parade» per «Sydney Parade», o «il carcere di Clerkemvell» per «il carcere di Clerkenwell». Non è chiaro se si tratti di errori dello stesso Joyce o della traduttrice: un semplice (sic) avrebbe risolto il dubbio e eliminato il problema).

Sebbene, dunque, il volume abbia il grande pregio di porre rimedio a un vuoto editoriale che andava colmato, sarebbe stato forse più soddisfacente e più sensato dare direttamente vita a una versione in italiano del tutto nuova dei preziosi documenti che compongono la raccolta, anziché mescolare materiali già pubblicati con testi inediti: si sarebbero potuti così confrontare due modi diversi di avvicinarsi a Joyce e ai suoi scritti, proprio come è successo con l’Ulisse ritradotto in italiano da Terrinoni nel 2012, che ora si può fruttuosamente confrontare con quello storico di De Angelis e con quello ancora più recente a firma Gianni Celati.