Il Belpaese ha coste deturpate e mari inquinati. Il rapporto di Legambiente, Goletta verde 2016, è drastico: «Ogni 54 km di litorale c’è un punto inquinato». Le regioni messe peggio sono Marche, Abruzzo e Calabria. Depuratori che non funzionano, bonifiche mai realizzate, scarichi liberi a mare. Le istituzioni e la politica latitano. I cittadini si lamentano, protestano. E a volte si ribellano.

Si muove la Procura
Rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, all’interno di tre capannoni nel porto di Gioia Tauro. Ma alla richiesta di spiegazioni dei carabinieri del nucleo ecologico, i titolari della società Coopmar, attiva nello scalo marittimo dove gestisce servizi afferenti la movimentazione di merci e l’imbarco e lo sbarco di container, hanno negato ogni responsabilità. Cento metri a destra del capannone adibito ad officina, c’è un tombino. Secondo gli inquirenti potrebbe essere stato utilizzato per lo smaltimento di olii industriali derivanti dalla manutenzione dei veicoli impiegati all’interno dell’area portuale.

La storia dei veleni del porto di Gioia sversati a mare, in quel lembo del Tirreno che va da San Ferdinando a Nicotera, ha forse il suo epilogo. La procura di Palmi ha aperto un fascicolo e i carabinieri hanno posto sotto sequestro preventivo l’intera area ricadente nella concessione fruita da Coopmar. Il capannone, al quale due giorni fa sono stati posti i sigilli, non è comunque di proprietà dell’azienda. Ma dell’autorità portuale che però non ha mai autorizzato servizi di rimessaggio di imbarcazioni o mezzi.
La svolta l’hanno data i cittadini. Sono riuniti sotto la sigla «comitato 7 agosto». E’ da quel giorno che San Ferdinando è in lotta per il suo mare e contro il “canalone killer”. Si tratta di un canale che dovrebbe raccogliere sin dagli anni ’70 le acque bianche della zona industriale, quelle provenienti dal porto e da alcune aree del centro abitato. Ma nel canalone non confluiscono solo acque bianche. Basta recarsi nei pressi per avvertire la puzza di liquidi fognari e soprattutto di idrocarburi. I manifestanti hanno constatato che quel liquido è infiammabile. L’ultimo sversamento di sostanze – c’è chi parla anche di metalli pesanti, forse radioattivi – sarebbe avvenuto a inizio agosto e, una volta che le piogge hanno spazzato via la piccola diga di sabbia messa dal comune per arginare il canalone, tutto il materiale è finito in mare.

A quel punto c’è stato l’intervento delle autorità competenti, dalla guardia costiera ai carabinieri del Noe. Ma la soluzione adotatta alla fine è stata nuovamente quella dell’argine di sabbia. Per questo i timori dei cittadini in vista di possibili nuove piogge si sono riaccesi. «Piuttosto che aspettare altri drammatici scarichi in mare abbiamo deciso di alzare il livello della protesta e restare in presidio a oltranza, anche di notte, fin quando non si interverrà con la bonifica» ci racconta l’urbanista Pino Romeo, storico ambientalista della Piana. Gli attivisti hanno occupato il palazzo del comune. Così come accadde a fine luglio nella vicina Nicotera. Dove i cittadini inferociti occuparono per giorni il municipio contro la “maladepurazione” del Tirreno.

Un territorio avvelenato
Agrumeti e uliveti sono scomparsi per far posto a fabbriche inquinanti e a un megainceneritore. In questa landa desolata il fiume Mesima, con le sue acque maleodoranti, è il simbolo di un luogo sempre più ammorbato, ove presto potrebbe nascere un rigassificatore. Per non parlare della tendopoli per migranti nell’area industriale. Aumenta il numero dei morti per tumore e crescono tra la popolazione rabbia e paura. La foce del Mesima si trova a ridosso delle provincie di Reggio e Vibo Valentia, tra San Ferdinando e Nicotera. Sono anni che l’agenzia regionale per la protezione ambientale pubblica i risultati allarmanti delle rilevazioni, fatte nel punto dove fiume e mare si incontrano, e sono anni che in piena estate il problema è così evidente che la stagione balneare è gravemente compromessa. E così in una delle aree portuali più importanti del Mediterraneo, dove nel 2015 furono smaltite tonnellate di armi chimiche siriane, si è andati avanti con lo smaltimento illegale dei rifiuti, sotto gli occhi e i nasi di molti. Metalli pesanti, nocivi, cancerogeni, sversati nel Tirreno, diventato il cimitero dei veleni.

Lo stato di crisi, richiesto dagli ambientalisti, ancora non è stato dichiarato. «L’economia e il benessere dell’area non possono sopportare che questi rifiuti danneggino ulteriormente l’immagine turistica e la salute, rischiando di ritrovarci nel mare o per le strade del centro abitato oli illecitamente smaltiti nel distretto portuale-industriale più blindato d’Italia. Staremo in presidio fin quando sarà necessario. L’area del primo porto italiano per traffico di container non può avvelenare in maniera così evidente e impunita un territorio che già paga un prezzo altissimo dalla concentrazione di impianti autorizzati ma altamente inquinanti» dicono gli attivisti.

La regione ha finalmente avviato un tavolo tecnico di monitoraggio. Ieri, la seconda riunione, alla presenza dell’assessore all’Ambiente, di un delegato del comitato, del sindaco di Gioia Tauro e dell’urbanista Romeo, ha delineato gli interventi di messa in sicurezza da effettuare e gli interventi in sospeso, nonché l’urgenza di effettuare la pulizia straordinaria, prima di rischiare lo sversamento in mare della pozzanghera velenosa e creare un vero e proprio disastro ambientale. Gli attivisti restano in allerta e la rivolta del canalone continua. Fino alla bonifica.