Come una sorta di nume tutelare che si sente il bisogno ogni tanto di evocare, Wallace Stevens compare – sebbene solo in epigrafe – anche nell’ultimo libro di John Banville, suo grande ammiratore: sono suoi i versi che motivano il titolo dell’ultimo romanzo dello scrittore irlandese, La chitarra blu (traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 284, euro 18,00), poche parole che rimandano a un mondo in cui il reale viene percepito, prima ancora che nella sua visibilità, nei suoi valoro tattili.

Non a caso, Oliver Orme, il protagonista, è un pittore, per quanto rinunciatario e ormai sfiduciato rispetto al suo talento. Anche lui coltiva una variante di quella che Wallace Stevens, riferendosi alla poesia, chiamava «la suprema finzione»: in Oliver è l’idea di traslare le apparenze, di trasformare gli oggetti, di rendere suo ciò che era di un altro. Non soltanto, infatti, dipinge ma ruba, sottrae piccoli oggetti di nessun valore assaporando il piacere che gli deriverebbe dall’essere scoperto, e in entrambe le sue attività lo scopo, la pretesa che lo guida è «assorbire il mondo nell’io».
Nella pittura come nel furto, l’oggetto della sua attenzione entra a far parte di una nuova vita, la sua, e gli si trasforma nelle mani, pronte a abbandonare tutto ciò che toccano, non per sciatteria ma per scarsa fiducia nelle proprie capacità di metterle a frutto.

Perciò Oliver lascia non finiti quadri che, pure, promettono buoni risultati, non gode di ciò che ha rubato, e un giorno se ne andrà dalla moglie, poi dalla donna che si era preso per amante, coniugata a sua volta con un uomo che vede in Oliver il suo migliore amico. La triangolazione, destinata a complicarsi, non offre di per sé materia inedita per un intreccio; né il confronto di Oliver con il marito della sua amante, che ha scoperto il tradimento ma non il traditore, è qualcosa che si legge per la prima volta; così come il doloroso imbarazzo sprigionato dalla confessione del povero cornuto al suo aguzzino non fa che ridestare, in chi legge, echi letterari sublimi – uno per tutti, il magnifico racconto di Salinger «Bella bocca e occhi miei verdi». Eppure, tutti questi precedenti nulla tolgono alla tensione della lettura, perché Banville si conferma dotato di una scaltra ma non esibita intelligenza, di una vigile autoconsapevolezza immune da ammiccamenti, e di una scrittura al tempo stesso così sapiente, ritmata, e sulla difesiva rispetto a ogni possibile deriva del gusto, da restituire un piacere di cui non si può non essergli grati, sebbene le sue risorse si sospettino, a volte, più pescate nelle riserve del mestiere che non da una qualche urgenza esorbitante il semplice desiderio di narrare.

Quanto al suo personaggio, essendo il talento di Oliver Orme speciale nel «trovare piccole sacche di pace e di quiete segreta anche nelle circostanze più cariche di tensione» non lo si può dire un uomo attraente. Nella sua vita c’è un grande lutto alle spalle, la figlia di tre anni morta mentre (dettaglio nella tragedia) lui era a letto con una donna che non era sua moglie; e nel presente lo si vede annaspare nella inadeguatezza quando si trova a fronteggiare le conseguenze del suo adulterio con Polly, la donna dell’amico che andrà a piangere sulla sua spalla. La diffidenza rispetto alle sue virtù spesso rende Oliver muto di parole, ma mai di pensieri, e quando tornerà da sua moglie Gloria, che lo accoglierà pur essendo incinta di un altro, il tacito patto tra loro sarà di tacere e andare avanti, come se le parole non potessero redimere quanto è stato, e dunque non si potesse che arredervisi.

Narrato in prima persona da Oliver, il corpo del romanzo si alimenta di una trama esile, corroborata da una tenace tessitura di dilazioni, a loro volta nutrite da una considerevole quantità di similitudini; e già il fatto che non una sola di esse risulti peregrina dà la misura della qualità garantita da Banville ai suoi romanzi, che sembrano uscire dalla sua penna, o da quella del suo alter ego Benjamin Black, come il più fisiologico dei gesti quotidiani.