«Il mio voto è per Ashraf Ghani. Anche se il dottor Abdullah mi promettesse l’intero Helmand, non lo voterei mai». Haji Mohammad Asif è un signore sui 60 anni, viso paffuto, sguardo bonario e barba lunga. Lo incontro nella sede di una shura tribale a Lashkargah, provincia sud dell’Helmand, nel cuore della cintura pashtun.

La shura è un consiglio elettivo che rappresenta gli interessi di una comunità.

Quella di Haji Asif include 8.300 famiglie dell’Helmand, ma le cui origini sono nelle province orientali di Laghman, Nuristan, Nangarhar, Kunar. Sabato 14 giugno, con altri 7 milioni di afghani (dato provvisorio), Haji Asif si è recato alle urne, senza dubbi. Ha votato per Ashraf Ghani, già ministro delle Finanze con un passato alla Banca mondiale, «perché è lui che merita di sostituire Karzai», il presidente uscente, al potere dal 2001 e al quale la Costituzione vieta un terzo mandato consecutivo. Haji Asif è così convinto, che scommette: «Torni dopo il conteggio dei voti. Scommetto che Ghani batterà Abdullah Abdullah».

Ma bisognerà aspettare per i risultati: i parziali verranno resi noti dalla Commissione elettorale indipendente il 2 luglio, i definitivi il 22 luglio. Sulla carta Haji Asif rischia di perdere. Al primo turno, il 5 aprile, Abdullah Abdullah, già ministro degli esteri e leader del partito a prevalenza tajika Jamiat-e-Islami, ha avuto il 45% sul 31% di Ghani. Incassando anche il sostengo dell’ex ministro degli Esteri Rassoul (primo turno 11%), dell’islamista Abdul Rasul Sayyaf (7%), di Gul Agha Sherzai e di Gutbuddin Helal, membro del partito radicale Hezb-e-Islami (il cui leader Gulbuddin Hekmatyar ha preso le distanze, definendo la scelta del suo uomo un «suicidio politico e una scelta personale»). Ma la politica afghana riserva sempre sorprese. I giochi non sono ancora fatti.

«È vero, molti importanti leader hanno deciso di sostenere Abdullah. Ma oggi la gente è più consapevole. Sa che si deve votare secondo idee e programmi, non sulla base di quel che dice questo o quel leader», mi spiega Mohammad Asif Mohammadi, 35 anni, a capo della shura orientale. «Nella nostra shura abbiamo deciso in modo collettivo di votare per Ghani. È un uomo onesto, molto istruito, ha le competenze in economia, non è stato coinvolto nei conflitti passati. Saprà portare la pace nel paese. Per questo abbiamo deciso di votarlo, non perché è un pashtun come noi», dice sicuro Asif Mohammadi. Nelle sue parole c’è tutto quel che gli afghani si aspettano dal nuovo presidente, chiunque esso sia: sicurezza e stabilità economica.

E proprio sull’economia Ghani ha insistito in campagna elettorale. Ha lavorato per anni alla Banca mondiale. Si presenta come il tecnocrate che renderà il paese meno dipendente dagli aiuti internazionali. Che il paese ne abbia bisogno è chiaro a tutti. Dalle stime della Banca mondiale l’economia afghana rischia di collassare presto. Dal 2002 al 2012 è cresciuta a un ritmo medio del 9%, ma nel 2013, contestualmente all’inizio del ritiro delle truppe straniere, la crescita è stata del 3.1%. Nell’ultimo rapporto della Banca mondiale (South Asia Economic Focus), si prevede che la crescita nei prossimi due anni si attesti sul 4.5%. A due condizioni: che i donatori non tirino i remi in barca, visto che il 90% del budget statale dipende da loro, e che «il processo politico e della sicurezza» avvenga senza problemi.

Afghanistan, Inchiostro indelebile per marcare gli elettori a Lashkargah foto di Giuliano Battiston
Anche in questa seconda tornata elettorale i Talebani non sono riusciti a fare il colpaccio che richiama i media internazionali, ma sono un attore politico-militare tutt’altro che residuale. In questi tredici anni di occupazione militare, la sicurezza non c’è mai stata. Non arriverà presto, nonostante le promesse elettorali. Per avere consensi, Abdullah Abdullah ha giocato la carta della «sicurezza», ricordando il suo passato di braccio destro del comandante Massud, il leggendario «Leone del Panjshir». «Abdullah è stato un mujahed, un combattente contro i sovietici, saprà difendere il governo dai Talebani e il paese dalle interferenze esterne», mi hanno detto in molti. «Non concederò niente ai Talebani. La condizione del negoziato è che rinuncino alla lotta armata», ha ripetuto Abdullah, non risparmiando critiche al troppo conciliante presidente Karzai verso i gruppi anti-governativi.

Ashraf Ghani è sulla linea di Karzai. Due settimane fa, quando è andato a Kandahar, città natale del movimento talebano, si è rivolto a «tutti i leader contrariati, in particolare a mullah Omar e Gulbuddin Hekmatyar», invitandoli «a tornare nel loro paese e vivere in pace con i loro fratelli».

Toni molti diversi di quelli di Abdullah, che rappresenta i gruppi politico-militari del nord, ostili ai «turbanti neri». Non a caso Burhanuddin Rabbani, fondatore del partito Jamiat-e-Islami, nel 2011 è stato ucciso proprio dai Talebani quando era a capo dell’Alto consiglio di pace, l’organo governativo nato per favorire il negoziato. Per fare la pace ci vuole un mediatore neutrale, e i membri del Jamiat-e-Islami come Abdullah e Rabbani non lo sono per il mullah Omar e per i gruppi della galassia talebana. «Considerati i precedenti, aspettarsi che Abdullah possa trovare un’intesa con i Talebani è irrealistico», sostiene il direttore di Bost Radio (Radio Lashkargah) Abdul Salam Zahid, per il quale «il team di Abdullah include tutti i vecchi mujaheddin, rappresenta la vecchia politica che vorremmo archiviare».

La sua posizione si basa su una considerazione semplice: la soluzione militare finora è stata controproducente, occorre «capire le ragioni per cui il governo viene combattuto con le armi». Tra queste, «c’è la corruzione del governo, uno dei fattori che più alimenta la propaganda talebana». Un nuovo governo, «efficiente, trasparente, basato sul rispetto della legge, è il migliore antidoto contro gli attacchi dei Talebani. Ghani saprà scegliere gli uomini giusti nella sua amministrazione», sostiene Abdul Salam Zahid. Di diverso parere è Abdul Waheed Wafa, direttore dell’Afghan Centre at Kabul University, fondato da Nancy Dupree, una vita spesa per l’Afghanistan. Prima di raggiungere Lashkargah, quando l’ho incontrato nella sede di Kabul, Wafa mi ha ricordato che «Karzai è un pashtun come i Talebani, uno dei sostenitori del movimento quando è nato, ma non è riuscito neanche a iniziare un processo di pace degno di questo nome. Quello afghano è un conflitto internazionale, non è un conflitto domestico, ma internazionale. Se il Pakistan non la smette con il doppio gioco, il conflitto continuerà. Non è questione di pashtun come Ghani o di tajiki come Abdullah». A Lashkargah le cose appaiono diverse rispetto a Kabul. «Per Abdullah tutti i pashtun sono talebani o terroristi. È una falsità. Ghani lo saprà dimostrare. Anche per questo lo sostengo», dice Haji Mohammad Asif prima di offrirmi l’ennesima tazza di tè bollente.