Sono rifugiati, fuggono dalla fame e dalle guerre, per dare speranza alla loro vita. Non conoscono una parola di italiano, ma giocano a calcio, son«o nigeriani, ghanesi e pakistani di etnia pashtun. Una squadra di africani anglofoni e francofoni, musulmani e cattolici, che grazie all’impegno di Alessio Buongiorno, impiegato di banca, poliglotta e dirigente provinciale di Sel, gioca a Lomazzo, nel comasco, terra della Lega.
Come è nata l’idea di una squadra di ragazzi africani.
Ho giocato a calcetto in serie B e poi in nazionale, schifato da quel mondo vent’anni fa ho lasciato il calcio. Sono stato a lungo impegnato nei corsi serali per insegnare l’italiano agli stranieri, conosco sette lingue, ho discendenze russe, mia moglie è indiana, ho pensato di sfruttare la mia conoscenza del calcio per offrire un’alternativa formativa e salutare ai ragazzi che frequentavano il corso. L’anno scorso sono arrivati a Lomazzo otto ghanesi e otto provenienti dalla Guinea e Senegal, tutti ragazzi tra i 18 e 23 anni.

Come li hai avvicinati al calcio?

Ho utilizzato il campo dell’oratorio, cercavo di coinvolgerli, chiunque passava trovava le porte aperte, anche i ragazzi italiani, se eravamo in dieci facevamo mini allenamenti, se in venticinque ci dividevamo in due squadre. L’anno scorso ho iscritto mio figlio di cinque anni alla scuola calcio Esperia, seguivo i suoi allenamenti e l’allenatore mi ha chiesto se gli davo una mano, visto che mi aveva individuato come un genitore non rompiballe. Io non aspettavo altro, ho cominciato ad allenare la squadra di mio figlio e al tempo stesso ho iniziato un lavoro di diplomazia con i dirigenti della società Esperia di Lomazzo, per convincerli a iscrivere la squadra dei rifugiati al campionato. Non sono mancate le difficoltà, dai documenti alle interminabili discussioni se fare o meno la squadra ghetto, è stato un lavoro duro di oltre tre mesi, i ragazzi erano scoraggiati, ho cercato di motivarli, ci siamo iscritti al campionato l’ultimo giorno. L’Esperia Lomazzo ci ha consentito di passare dal campo spelacchiato dell’oratorio a un vero campo di calcio, e dalle partitelle tra di noi al campionato del Csi, che costa meno rispetto a quello della Figc. Disponiamo di spogliatoi, divise, iscrizione gratis al campionato, l’unica spesa a carico delle tre cooperative, che ospitano i ragazzi africani, è la visita medica. Fin dall’inizio ho avuto il pallino del campionato e l’ho perseguito fino in fondo per consentire ai ragazzi di giocare e integrarsi, un’esperienza che mi ha arricchito sul piano umano, ho tratto dei benefici personali, mi sento quotidianamente una persona migliore.

Sul campo di gioco?

Ieri abbiamo giocato la nostra prima partita e abbiamo perso 3 a 1, avevo preparato il terreno chiamando l’allenatore della squadra avversaria per spiegargli le caratteristiche della squadra, e se i miei ragazzi avessero fatto qualche intervento scomposto era perché non sono abituati. Nella squadra c’è un continuo cambio di persone, ne arrivano di nuove, stanno imparando l’italiano con difficoltà, fortunatamente parlo in maniera fluente l’inglese e il francese e riusciamo a capirci. In campo non sono smaliziati, non hanno idea di certe condotte dei giocatori italiani, i calci d’angolo, le palle inattive, ecc. L’anno scorso ero riuscito a far giocare alcuni ragazzi nelle squadre della zona, perché molto bravi, ma erano del tutto ignari delle tecniche di provocazione. Nella partita di ieri gli avversari sono stati molto attenti e gentili nei confronti dei miei calciatori.

I ragazzi come vivono l’esperienza calcistica?

Prima della partita sono molto agitati, alcuni hanno fatto un piccolo torneo l’anno scorso, mi avevano chiesto di allenarli perché erano ultimi, ma non sono riuscito a risollevare le sorti in classifica. Alcuni sono bravi tecnicamente, ma non hanno idea dello sport di squadra, non curano l’alimentazione, cose che noi diamo per scontato. Una volta ho detto loro che l’allenamento successivo l’avremmo fatto correndo nel bosco e loro si sono presentati con le scarpe da calcio con i tacchetti, hanno corso sul duro, stupidamente davo per scontato che si presentassero con le scarpe da ginnastica, devo sempre valutare preventivamente le conseguenze delle mie parole o dei miei gesti. Ultimamente si è aggiunto un nuovo giocatore dello Sri Lanka di origine pashtun, che non è un richiedente asilo, ero riuscito a coinvolgerlo perché ho dato la possibilità a lui e ai suoi amici di usare il campo dell’oratorio per giocare a cricket, poi si è aggregato a noi per giocare a calcio. Cerchiamo di avere un inno della squadra, quando c’erano i nigeriani, che sono anglofoni, cantavamo «We shell overcome», adesso che prevalgono i francofoni, il nostro inno è «Io vagabondo» dei Nomadi.

Qual è il loro livello di istruzione?

Sono ragazzi analfabeti, vengono dai villaggi, molti di loro risultano nati il primo gennaio, perché in realtà non sanno il giorno in cui sono nati e neppure l’anno, nei loro villaggi guidano l’auto anche se uno non ha la patente. Si rendono conto che anche se sei gentile con loro non puoi cambiargli la vita. All’entusiasmo iniziale subentra una fase di depressione, poi alcuni ne vengono fuori, anzi tornano nel loro paese con una mentalità diversa, come se avessero fatto una sorta di Erasmus in Italia, altri non ne vengono fuori e non so che futuro avranno.
Ci sono state reazioni politiche rispetto all’idea di una squadra interamente di rifugiati?
I militanti di Forza Nuova hanno esposto uno striscione davanti al cancello dell’ufficio del sindaco, diceva che da quando sono arrivati i primi ragazzi africani sono aumentati i furti. Non voglio alimentare polemiche, anche se da un punto di vista politico potrei espormi, mi preme salvaguardare l’esperienza sportiva dal basso, che mi vede coinvolto insieme ad altri cittadini di buona volontà. Questi ragazzi hanno bisogno di capire il più presto possibile dove sono arrivati, durante una partita di calcio di campionato l’atteggiamento astioso di un calciatore della squadra avversaria e l’immancabile «negro di merda» può aiutare a capire il contesto in cui vivono, rispetto ad assumere atteggiamenti iperprotettivi nei loro confronti. Da ex atleta non apprezzo più di tanto il calcio di vertice, mi coinvolgono molto di più le esperienze di base, in questo contesto il calcio ha una lingua universale e può aiutare i ragazzi nel processo di integrazione, grazie al calcio sono riuscito a formare la squadra dei rifugiati, con il ping-pong non sarei riuscito.

Quali sono i rapporti tra loro?

Attraverso un paziente lavoro sono caduti reciproci pregiudizi tra i giocatori, anche se non è facile all’interno della squadra far convivere cristiani e musulmani, nigeriani e ghanesi. A volte gli animi si scaldano perché uno dice che le prostitute della zona sono tutte nigeriane, mi sforzo di far capire loro che queste cose devono essere messe da parte, altrimenti non siamo più una squadra e da qui allargo il discorso alla tolleranza quotidiana.

Ci sono stati episodi di razzismo nei confronti dei tuoi ragazzi?

Quando giocavamo sul campetto dell’oratorio, abbiamo fatto una festa, i ragazzi hanno cucinato cibi africani, sono arrivate persone insospettabili che mi chiedevano se non avessi paura di prendermi l’ebola. Il venerdì quando torno a casa dal lavoro, mi cambio e vado ad allenare la squadra dei più piccoli, dove gioca mio figlio. Dalle 20 in poi alleno la squadra dei rifugiati, a ognuno di loro assegno un compito in modo tale che quando arrivo dall’altro campo sia tutto pronto. La settimana scorsa è successo che non si trovavano le chiavi dello spogliatoio e i miei ragazzi in attesa che arrivassi hanno sostato davanti allo spogliatoio di fianco al nostro. Il giorno successivo un dirigente della società mi ha chiamato per dirmi che molti genitori si erano lamentati della loro presenza e che devono imparare a stare al loro posto. In quel momento mi è venuto un certo nervosismo, però ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Ho imparato che se voglio salvaguardare la squadra dei rifugiati africani a volte devo dire «sì padrone».