Una città in espansione. Che si fa bella, pronta a esibire il suo fascino, a sfoggiare gli eleganti edifici firmati dalle star dell’architettura, le strade pulite e maestose, i giardini curati, le fontane spumeggianti, le luci notturne al neon, la ricchezza costruita sul petrolio. Così abbiamo trovato Baku, capitale dell’Azerbaijan – il paese asiatico stretto tra Caucaso e Mar Caspio, tra la Russia a nord e l’Iran a sud – alcune settimane fa.

L’abbiamo visitata mentre erano in corso i preparativi per i Giochi europei. I primi in assoluto: 6.000 atleti da 50 nazioni diverse, 253 eventi sportivi, 14 giorni di gare. Inaugurati il 12 giugno con una cerimonia a cui ha partecipato perfino la pop star americana Lady Gaga, i Giochi si concluderanno domenica prossima con un prevedibile tripudio di lustrini. Che nascondono del marcio.

Vietato ai giornalisti

Per nasconderlo meglio, le autorità azere hanno deciso di negare l’ingresso ad alcuni giornalisti stranieri. É successo a Owen Gibson, a capo della sezione sportiva del quotidiano The Guardian, che si è visto rifiutare l’accredito a causa di un servizio realizzato negli scorsi mesi proprio a Baku, nel quale non aveva risparmiato bordate al governo del presidente Ilham Aliyev.

Tra gli altri, a Baku Gibson aveva incontrato anche la giornalista investigativa Khadija Ismayilova, divenuta nel frattempo il simbolo della battaglia per la libertà di stampa in Azerbaijan. Una libertà sempre più minacciata.

Tanto che Rachel Denber, vice-direttrice per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch, è arrivata a dire che «la repressione governativa sta rendendo i Giochi europei storici, ma per le ragioni sbagliate».

Di fronte al giro di vite sugli oppositori, sulle voci critiche, sui giornalisti non allineati e non silenti, Rachel Denber ha sollecitato il Comitato olimpico europeo a farsi sentire con il governo di Baku. Peccato che nessuno, né nelle istituzioni sportive né nelle cancellerie occidentali, abbia intenzione di forzare troppo la mano. Gli affari sono affari. E l’Azerbaijan, paese esportatore di petrolio e gas, è un alleato troppo importante. Il Comitato olimpico si è limitato a ribadire l’ovvio: il bando di giornalisti «è completamente contrario allo spirito dello sport», ha sostenuto il presidente del Comitato, l’irlandese Patrick Hickey, che ha subito puntualizzato: «c’è una cosa che non possiamo fare ed è dire a uno Stato sovrano come gestire i propri affari».

Il modo in cui lo Stato azero gestisce i propri affari è sotto gli occhi di tutti: secondo l’organizzazione no-profit statunitense «Committee to Protect Journalists», l’Azerbaijan sarebbe al quinto posto nella classifica dei paesi più censurati del mondo. Le autorità governative avrebbero consolidato un’ampia gamma di pratiche per scoraggiare la libertà di stampa: intimidazioni ai giornalisti, minacce agli inserzionisti, irruzioni violente della polizia nelle redazioni, fino alle false accuse di svolgere attività economiche illecite e di possedere e consumare droga rivolte ai reporter scomodi (e agli oppositori politici e agli attivisti, specie i più giovani). In alcuni casi, ci si è spinti anche oltre.

La storia di Khadija Ismayilova è tristemente esemplare. Conduttrice di un noto programma su Radio Azadlyg, il servizio azero di Radio Free Europe/Radio Liberty (finanziata dal Congresso statunitense), Khadija Ismayilova è in carcere dal 5 dicembre 2014.

Gli affari della famiglia Aliyev

Per lei, i problemi sono cominciati molto prima, da quando ha deciso di immischiarsi negli affari – non troppo trasparenti – della famiglia Aliyev, al potere dal 1993, quando Heidar Aliyev – nominato da Breznev nel 1969 Segretario del Comitato centrale del Partito comunista dell’Azerbaijan, per alcuni anni membro del Politburo sovietico – è diventato presidente (nel 2003 ne ha preso il posto il figlio Ilham, con elezioni della cui regolarità molti dubitano).

Con il suo lavoro Khadija Ismayilova ha svelato la zona d’ombra che lega i profitti personali della famiglia Aliyed e gli interessi dello Stato. Ha sempre vissuto il suo lavoro sotto pressione, ma le cose sono peggiorate dal 2012.

Nel febbraio di quell’anno – ha ricordato Giorgi Gogia, ricercatore di Human Rights Watch – l’emittente televisiva americana Cnbc ha mandato in onda un servizio («Filthy Rich») in cui segnalava che tra i grandi proprietari di immobili/real estate di Dubai ci fosse anche la famiglia Aliyev, con un patrimonio valutato decine di milioni di dollari. Un paio di settimane dopo, Khadija Ismayilova, che era stata consultata per il servizio, si è ritrovata sulla bocca di tutti i cittadini azeri.

Qualcuno aveva pensato di piazzarle una videocamera nella stanza da letto e di rendere pubblico il video di una notte trascorsa con il fidanzato. L’anno successivo è toccato alla madre, accusata su un quotidiano vicino al partito al potere di essere «un’armena», dunque una traditrice (Armenia e Azerbaijan sono ancora in guerra per la regione contesa del Nagorno Karabakh).

Alla fine del 2014 per la giornalista investigativa è arrivato il carcere. Prima con l’accusa di aver incitato un uomo al suicidio, poi con quelle di evasione fiscale, attività economiche illecite, diffamazione. E di spionaggio: perlomeno a voler dar retta a Ramiz Mehdiyev, capo dell’amministrazione presidenziale, che due giorni prima dell’arresto su un giornale locale aveva accusato Ismayilova di vendersi agli stranieri. In particolare agli americani.

Le accuse di Amnesty

Con l’avvicinarsi dell’inaugurazione dei Giochi europei, ulteriori chiusure. Amnesty International aveva intenzione di lanciare proprio a Baku il rapporto «Azerbaijan: the Repression Games. The voices you won’t hear at the first European Games». Il 9 giugno l’ufficio londinese dell’organizzazione ha ricevuto una lettera dall’ambasciata azera di Londra: «la missione di Amnesty non è benvenuta». Tutto rimandato.

È stata rimandata a casa anche Emma Hughes, attivista del gruppo ambientalista Platform, membro della redazione del magazine britannico Red Pepper e promotrice della campagna «Sport for Rights», che chiede la liberazione dei prigionieri politici azeri.

Il 10 giugno, arrivata all’aeroporto di Baku, è stata fermata dalla polizia di frontiera. Prima di essere respinta, è stata trattenuta a lungo. Tanto a lungo da poter scrivere un articolo, poi pubblicato sul sito di Red Pepper, in cui anticipa le tesi principali di un suo libro-rapporto reso pubblico il 12 giugno: All that Glitters. Sport, BP and Repression in Azerbaijan (Tutti quei lustrini. Lo sport, la British Petroleum e la repressione in Azerbaijan).

Al centro dell’accusa di Emma Hughes c’è il rapporto tra il regime azero e l’azienda petrolifera British Petroleum (BP).

Il business della British Petroleum

Un rapporto osmotico, di mutuo beneficio, cementato – secondo l’autrice – dalla ricerca del profitto a tutti i costi e dalla mano pesante contro chiunque minacci di metterlo a repentaglio. Per Emma Hughes, i Giochi europei servono a un solo scopo: ripulire l’immagine «di un regime corrotto e della compagnia petrolifera che lo serve. Lo scopo è presentare la famiglia Aliyev come progressista e aperta al mondo. In realtà, ha uno scioccante record di abusi dei diritti umani, repressione della libertà di parola e di assemblea, incarcerazione di ogni voce dell’opposizione».

Secondo Emma Hughes, dal 1994, «quando BP è divenuto l’operatore del più grande campo petrolifero in Azerbaijan, la corporation e il regime di Aliyev sono diventati ancor più interdipendenti». Un’interdipendenza già spiegata in maniera magistrale da James Marriott e Mika Minio-Paluello nel libro The Oil Road (Verso Books, 2013), dove tra l’altro si legge: «la cooperazione dell’azienda con il regime repressivo opera su livelli multipli: potere esecutivi locali nei villaggi, il servizio segreto azero, e le truppe del Servizio di protezione speciale dello Stato». Un vero e proprio apparato per garantire i profitti della famiglia Aliyev e della British Petroleum.

La repressione interna

Le tesi dell’attivista Emma Hughes non convinceranno tutti. Ma di una cosa si può star certi. L’autrice di All that Glitters. Sport, BP and Repression in Azerbaijan è abbastanza onesta da riconoscere che il suo arresto temporaneo all’aeroporto di Baku è poca cosa rispetto alla repressione subita dai cittadini azeri. Ricordiamo con lei i casi più noti: il giovane attivista democratico Rasul Jafarov, fondatore della Ong Human Rights Club e della campagna Sport for Rights, è stato condannato a una pena di 6 anni e mezzo.

La sessantenne Leyla Yunus e il marito Arif, difensori dei diritti umani, sono stati accusati di tradimento e rischiano l’ergastolo per aver chiesto il boicottaggio dei Giochi europei. Lo scorso aprile l’avvocato per i diritti umani Intigam Aliyev (nessuna parentela con la famiglia al comando) è stato condannato a sette anni e mezzo. Insieme a loro, molti attivisti del movimento giovanile Nida.

Diversa la sorte di Emin Huseynov, fondatore dello Institute for Reporters’ Freedom and Safety e del canale «Objektiv». Nell’agosto del 2014 si era rifugiato nell’ambasciata svizzera, dopo un arresto arbitrario criticato con enfasi dalla stessa Corte europei dei diritti umani. Da qualche giorno è a Berna. Ha raggiunto la Svizzera grazie all’aiuto della fondazione «Courage», presieduta dalla giornalista di WikiLeaks Sarah Harrison (ma per qualcuno il suo esilio è solo una concessione del presidente Aliyev. Per chi rimane in Azerbaijan, le cose comunque non promettono nulla di buono: alla vigilia dell’inaugurazione dei Giochi, Khadija Ismayilova ha pubblicato una lettera dal carcere sul New York Times, chiedendo ai suoi sostenitori di «continuare la battaglia per i diritti umani».

Due giorni dopo la lettera è uscita in una versione modificata sul sito web dell’agenzia pro-governativa SIA e poi sull’agenzia Kaspi (legata al governo). Le parole di Khadija Ismayilova erano stravolte: «continuate la battaglia per consolidare la battaglia della quinta colonna». Lo stesso linguaggio che usa il presidente azero quando, attaccando ogni opposizione, minaccia di non voler permettere alla quinta colonna di svendere il paese agli stranieri. (GB).