Per fortuna che c’è Battisti. Il tripudio comune per l’arresto da mondovisione attenua le tensioni, regala alla maggioranza una boccata d’ossigeno proprio all’inizio di una settimana da via crucis. Dietro l’angolo c’è l’obbligo di tirare fuori dal cassetto i contenuti di quella manovra di cui si discute per accenni e sentito dire da mesi interminabili. Non sarà una passeggiata. A ogni passo, poi, spunta un nuovo ostacolo, dalle trivelle che la Lega vuole e i 5S no alla liberalizzazione della marijuana, dove le parti si invertono.

Ma la grana reale è la Tav. Salvini insiste. «Se non si trova un accordo daremo la parola ai cittadini». Referendum insomma. La sola parola basta a innervosire i 5S. Chi sta fuori dal governo, da Grillo a Di Battista a Fico sino all’M5S del Piemonte, è fieramente avverso. Chi del governo fa parte, invece, deve per forza calmierare i toni, come fa Toninelli: «Se lo chiedono i cittadini…». In effetti un referendum non richiesto dai cittadini sarebbe una bizzarria assoluta. Di referendum, per il momento, non vuole parlare quasi nessuno. Faccenda prematura tanto per l’inquilino di palazzo Chigi quanto per la sindaca Appendino. Di Maio invece, dopo qualche giorno di imbarazzo, rompe il silenzio e si schiera con la linea massimalista: «Se i tecnici ci diranno che l’opera non sta in piedi la si blocca». E sul referendum: «Non ho ancora capito come lo si voglia celebrare».

Ottima domanda, perché in effetti c’è referendum e referendum. Quello che ha in mente Salvini è un vero e proprio referendum propositivo nazionale. Sulla carta sarebbe la via maestra. Nel concreto un po’ meno. Bisogna infatti prima di tutto varare la riforma costituzionale che dovrebbe introdurre i referendum propositivi, oltre al dimezzamento dei parlamentari: un paio d’anni se ne andrebbero. Poi bisognerebbe indire e raccogliere le firme per il referendum sulla Tav: un altro annetto. Il presidente di Confindustria Boccia capisce l’antifona e mette le mani avanti: «Non possiamo aspettare il referendum per attivare opere che determinano occupazione». E neppure ci si può, secondo Boccia, far dettare la scelta dalle verifiche costi-benefici: «L’analisi di impatto va fatta sul livello di occupazione che i cantieri generano».

Gli industriali la Tav la vogliono e la vogliono subito non fra tre anni. Le cose sarebbero più rapide con un referendum regionale, ma anche lì la strada non è sgombra. Bisognerebbe varare una legge apposita e il consiglio regionale non è detto affatto che abbia il tempo per farlo. Il valore legale, poi, sarebbe comunque dubbio. Il referendum con i cantieri fermi per anni, insomma, sembra essere solo una via d’uscita per consentire alla Lega di non perdere del tutto la faccia se passerà la linea dei 5S. Neppure la «mediazione» che il Carroccio insiste nell’indicare come soluzione ottimale sarebbe del resto un vero incontro a metà strada. L’ipotesi di proseguire con il progetto originario, costosissimo e privo di reale ritorno, è fuori discussione. La revisione di cui parla Salvini, abbassando le spese ma conservando la costruzione del tunnel base, sarebbe una vittoria piena dei leghisti. In questa partita, insomma, non è possibile la parità come non è possibile il rinvio. Nelle prossime settimane ci saranno un vincitore e un vinto.

Oggi stesso il Pd giocherà al Senato la sua carta: una mozione che chiede di riprendere subito i lavori partendo con gli appalti. Fi la voterà. LeU no. E la Lega? Prenderà tempo. I capigruppo della Lega e dell’M5S insisteranno per rinviare al voto a dopo l’arrivo della perizia giuridica, quella che dovrebbe dire una parola definitiva sull’eventuale cancellazione dell’opera in termini di penali. In aula vinceranno e il voto sarà rinviato ma non di molto. L’arrivo della perizia è dato per imminente, questione di giorni. L’ostacolo dribblato oggi si riproporrà la prossima settimana. L’ipotesi di un voto leghista a favore della mozione del Pd è fantascienza ma la Lega potrebbe presentare una propria mozione a favore della Tav, sulla quale Pd e Fi potrebbero scegliere di convergere. Per la decisione finale del governo sarebbe un’ipoteca pesante. Per la stabilità della maggioranza una mazzata senza pari.