Col volto coperto dal charshaf nero, poi svelato sullo sfondo delle capitali europee tappe della loro fuga, Zennur e Nuryé Noury Bey, figlie di un ministro del sultano Abdul Hamid II, si presentano nella copertina di Evase dall’harem (Oblomov).
Il libro riprende gli studi del professore Alain Quella Villeger, storico e biografo dell’esotista e accademico francese Pierre Loti; con il contributo del fratello sceneggiatore Didier Quella Guyot diventa un fumetto disegnato magistralmente da Sara Colaone che riesce qui a far convivere autodeterminazione femminile, spirito d’avventura, critica all’orientalismo, fascinazione e scoperta dell’altro.

In questa storia Pierre Loti, il famoso accademico francese appassionato orientalista, è un personaggio secondario; sono le sorelle che decidono di evadere dalla vita dell’harem e le loro aiutanti femminili ad avere un ruolo centrale. Come ti sei imbattuta nella vicenda?
Ho conosciuto questa storia proprio grazie ad Alain e Didier, che avevano visto i disegni di Leda (Colaone-Satta-deSantis, Coconino Press 2016) e se ne sono innamorati, proponendomi di lavorare con uno stile analogo al loro progetto, che è arrivato sul mio tavolo grazie all’editore Steinkis. In particolare erano rimasti colpiti dal mio uso del nero, delle pennellate decise e dal tipo di ricostruzione degli ambienti, che è fedele, ma non vuole essere pedante, e che tende invece a proporre una «reinterpretazione» abbastanza personale degli umori di inizio Novecento.

Siamo di fronte a una notevole riflessione sulla forza evocativa della parola e dell’atto narrativo: le sorelle coltissime, conoscono l’Europa attraverso i libri; quando sono ancora in Turchia affidano le proprie parole allo scrittore Pierre Loti, che ne farà un libro; più avanti la storia della loro fuga diverrà un feuilleton in risposta agli articoli incriminanti e moralizzanti della stampa francese…la parola come metafora di libertà?
Nuryé e Zennur capiscono subito che la loro vita da recluse e in generale la condizione della donna turca nell’impero Ottomano deve essere descritta usando lo strumento della parola, anche per uscire da una visione oleografica e superficiale che le inquadra in una cornice orientalista molto esotica, ma poco rispettosa delle loro aspirazioni. La parola è in quel periodo un potentissimo mezzo di comunicazione col mondo a cui loro sentono di appartenere, un mondo poliglotta e cosmopolita, che le due sorelle identificano inizialmente nella cultura europea. La parola permette loro di mettersi alla pari con il loro idolo letterario, Loti, e consente anche di coinvolgerlo in un gioco «pericoloso» fatto di dettagli narrativi e seduzioni.

 

Sara Colaone

A corollario delle domande precedenti, Pierre Loti è infine strumentalizzato dalle sorelle che vogliono far conoscere la propria condizione, alla quale aggiungono deliberatamente elementi sensuali e tragici; gli affidano la loro storia, poiché sanno bene come questa sarà presentata e recepita dal pubblico europeo. È un ribaltamento dell’egemonia maschile che regola anche il mondo dell’arte e dell’informazione e quindi la conoscenza?
Sì, è un ribaltamento estremamente audace -considerando anche la giovane età delle sorelle- di cui lo stesso Loti si meraviglia, stando però al gioco. Le tre donne, che incontra inizialmente velate, sono per lui quasi tre «enigmi», tre fantasmi (come lui stesso le descrive), enigmi di una femminilità celata ma viva, prorompente e desiderosa di svelarsi, stanca di soggiacere a un’imposizione crudele che vede le donne segregate e impossibilitate a una socialità libera, all’espressione sincera dei sentimenti e del proprio essere. L’unica strada per iniziare il percorso è proprio quella di agganciare l’interesse dello scrittore e farlo uscire dai cliché dei quali inevitabilmente è anche lui vittima, poiché conosce solo una parte di quella società che ha comunque sensibilmente descritto nei suoi romanzi precedenti a Le Disincantate (1906). Il ribaltamento avviene tramite la sollecitazione della sua umana curiosità di scrittore, ma anche del sottile desiderio di vederle, di capire fin dove si può spingere la loro audacia. Credo che nemmeno Loti potesse immaginare che le tre donne si sarebbero spinte fino alla fuga verso l’Europa, che avviene grazie a una fitta rete di relazioni intellettuali che riescono a imbastire e utilizzare con disinvoltura.

Da disincantate a evase…Zennur e Nuryé capiscono il potenziale non solo delle proprie azioni, ma anche della loro narrazione; l’autodeterminazione e la solidarietà femminile completano un affresco femminista e incredibilmente moderno, non credi?
Infatti, nel corso del racconto colpisce come la fuga riesca a catalizzare l’interesse di una grande parte della società del tempo. È una fuga che mette in crisi la famiglia e la società ottomana perché ne rivela le falle, ed è una fuga che racconta la coesione internazionale intorno alle due ragazze turche, che diviene un affare di stato, appunto, intorno al quale si gioca la prova evidente di un cambiamento necessario. In questo senso Nuryé e Zennur diventano inconsapevolmente simboli di un movimento inarrestabile, anche se una volta arrivate in Francia si renderanno conto che essere simboli fa di loro talvolta degli oggetti esotici, delle notizie viventi buone da esibire nei salotti, immagine questa cui reagiranno proponendo la loro versione dei fatti.

Loti e il suo esotismo sono l’epigono della percezione occidentale dell’oriente. Loti è un avventuriero e avventuroso è il contatto con le protagoniste del romanzo, che hai scelto di raccontare a ritroso, partendo dal ricordo del tempo passato in Turchia, quando loro sono ormai in Europa. Questo ti ha permesso di inserire il loro sguardo emancipato e smaliziato sulla percezione occidentale della Turchia, una lettura antiorientalista?
L’idea di raccontare la vita in Turchia come flashback era già nella sceneggiatura e permetteva di esplorare non solo la forza di queste donne ma anche le loro incertezze, i dubbi e i rimorsi, che le attanagliano con forza durante la rocambolesca avventura. Sono donne che lottano prima di tutto con l’idea di lasciare il certo per l’incerto, l’agio con la possibile povertà, per inseguire un’idea di libertà che assume aspetti mutevoli e che deve essere sempre confrontata con la loro profonda interiorità. La libertà che conquistano è la possibilità di fare, di decidere per sé. Il modo in cui utilizzeranno questa libertà non può e non deve essere sovrapposto al loro diventare simboli di liberazione. Quindi autonomia da tutto, anche dall’immagine cristallizzata delle donne in perenne rivolta.

Graficamente molto intenso e dettagliato, il libro contiene anche la storia di due visioni della libertà conquistata: Nuryé si lascerà coinvolgere dalla vita artistica francese, presenterà il romanzo con Pierre Loti e poserà per Auguste Rodin, sposandosi infine con un musicista polacco; sua sorella Zennur rivedrà le sue posizioni sull’Occidente e deciderà di tornare in Turchia, dove un’altra stagione di libertà sta per iniziare… Hai lavorato più a fondo sui paesaggi geografici o su quelli umani?
Ho cercato di raccontare in modo sintetico attraverso i segni l’idea dell’evoluzione che compiono i due personaggi e del meccanismo letterario che innescano sia con le loro parole che con la loro presenza. Il paesaggio che ho voluto descrivere è quello che ho immaginato potessero vedere: un misto fra dimensione letteraria ed esperienza concreta, che lentamente scivola in un senso di delusione. L’Europa che inizialmente avevano colto attraverso i romanzi si rivela differente, forse meno ricca sul piano della gratificazione profonda da loro ricercata. Ha origine così quel distacco che le farà riconsiderare alcuni aspetti della loro formazione, spingendo infine Zennur a rientrare in Turchia, dove la sua esperienza potrà significare ancora qualcosa. Per quel che riguarda me invece, nella realizzazione di questo romanzo è stato importante il confronto con il loro sguardo, con la loro lucidità e schiettezza nell’individuare ciò che di fasullo c’è ancora nel modo in cui noi europei pensiamo all’idea di libertà.