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La globalizzazione è finita. Donald Trump ne sta solo stendendo il certificato di morte. È la sintesi di un saggio del vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera tradotto e pubblicato nel sito internet «contropiano» (contropiano.org), dove il ritorno dello stato nazionale è visto non solo come smentita della ideologia neoliberista, ma come una sfida per tutti quei movimenti sociali che hanno come base «naturale» della loro azione politica la dimensione nazionale.

GARCIA LINERA vede questa sfida come irrinunciabile per chi vede nel capitalismo un sistema sociale basato sull’oppressione e come un pericolo per la continuazione della specie umana, visto che i danni, le devastazioni dell’ambiente sono connaturati a questo modo di produzione.

Molti dei passaggi del testo, dall’apodittico titolo «La globalizzazione è morta» sono espressione di un senso comune molto diffuso nei movimenti «antisistema». Peccato che l’argomentazione si ferma sulla soglia di una spiegazione su come è già cambiata la forma-stato attuale, sempre più nodo «subalterno» di forme di comando e governance sovranazionali, come insegna il caso europeo.

Lo slogan di Donald Trump «America first» crea ovviamente movimenti tellurici nelle forme di comando in una logica isolazionista che trova l’ostilità non solo dei movimenti sociali statunitensi, ma anche delle imprese simbolo della globalizzazione – da Apple a Google, da Facebook alle major del bio-teech . Con realismo si può affermare che la globalizzazione non è un fenomeno statico, sempre eguale a se stesso. Semmai è in costante mutamento, che ne ridisegna sia la geografia economica, sociale e politica. E con il cambiamento della geografia mutano i rapporti di potere tra stati, tra imprese.

Non è quindi un caso che la world factory del capitalismo – la Cina – si candidi a sostituire gli Stati Uniti nella leadership economica mondiale attraverso la definizione di quel multilevel soft power che dovrebbe consentire non la società globale dell’armonia, bensì una governance del regime di accumulazione planetario che contenga alcuni effetti collaterali, come le guerre commerciali e le crescenti diseguaglianze sociali locali e mondiale.

IL SAGGIO DI PIERLUIGI FAGAN Verso un mondo multipolare (Fazi editore, pp. 347, euro 25) viene dall’interno di chi ha operato all’interno dell’globalizzaizone – l’autore è stato per decenni un manager di diverse multinazionali – e guarda alla nuova realtà per quella che è: un regime di accumulazione che deve dissolvere continuamente modelli organizzativi, strategie imprenditoriali, rapporti sociali per crearne di nuovi. Per Fagan – il libro è una miniera di case studies che meriterebbero ognuno di essere approfondito -, la globalizzazione cambierà nel corso del tempo, ridisegnando le mappe del potere. Interessanti sono quindi le parti sulle dinamiche inerenti la divisione internazionale del lavoro: guai a pensare che chi ha prodotto automobili per conto terzi non abbia deciso di progettarle e costruirne in proprio, modificando così la composizione del lavoro vivo. E di come il movimenti di uomini e donne possa essere fermato a colpi di decreti leggi. Semmai, ma questa è la realtà attuale, la globalizzazione sta ridisegnando anche i confini, mal tollerando la libertà di movimenti, intesa come affermazione di libertà. Ma questa è partita in corso. Giocarla pensando a un semplice ritorno al passato è il più impolitico errore che i movimenti sociali possono far. Anche se non può essere ignorata il rischio di trasformare le guerre commerciali in guerre guerreggiate.