Il titolo rimanda al mondo pirotecnico di Bruno Munari, tecnologia e design per produrre Macchine inutili (La Contorsionista/Sciopero Records), titolo anche del nuovo album de Lastanzadigreta, dove l’inutilità è la personificazione della contrapposizione al produttivismo esasperato. La crew torinese vincitrice della Targa Tenco 2017 per la migliore opera prima con Creature selvagge, imbastisce un ensemble di strumenti di recupero come racchette da tennis, tubi, pentole insieme a banjo, theremin o chitarra e pianoforte. Un artigianato da cameretta o da strada ispirato, per 13 pezzi frizzanti, nati dalla consapevolezza di compiere un atto poetico e giocoso; un’operazione seria. Dietro al nome della crew c’è una vicenda triste, Jacopo Tomatis, (voce, mandolini, synth) ce la racconta: «Greta è il nome di una persona che non c’è più, per la quale ci siamo incontrati ormai più di dieci anni fa. Ci siamo piaciuti e abbiamo tenuto Greta nell’intestazione: i nomi hanno un potere».

NELL’ALBUM c’è un approccio meno busker del primo, certamente più pop e cantautoriale, legato a un immaginario fantastico ma anche con brani che parlano di Resistenza, di precariato (Canzone d’amore e di contributi) o riciclaggio (Fiori): «Volevamo fare pezzi meno cervellotici. I temi politici ci sono, ma crediamo fermamente che il grande male di molta canzone d’autore sia stato l’arenarsi sui contenuti “impegnati” come forma di distinzione, di autoassoluzione collettiva e di classe. Ogni band è una microsocietà dove ascoltarsi e rispettarsi, trovando un punto di incontro tra le diversità. Questo è il messaggio politico che la musica ha in sé, lo stesso che portiamo ai ragazzi quando insegniamo». I “giocattoli” sono il tessuto minimalista che suppliscono anche a strumenti assenti come basso e batteria.

I PEZZI ARRIVANO con piccole suggestioni che entrano nella melodia: «L’idea è di uscire dalla comfort zone per imbracciare strumenti su cui non si ha il controllo. Negli anni abbiamo battuto i mercatini accumulando vecchi harmonium, drum machine anni sessanta, claviette, cigar box…». In un’ottica poetica e politica rientra l’omaggio Munari. In un momento in cui tutto l’indotto musicale è praticamente zoppo, i musicisti sono oggettivamente delle “macchine inutili”: «Certamente, così come lo sono le canzoni, non servono a nulla, non producono ricchezza. Dipende ovviamente da che cosa intendiamo per ricchezza. Munari, nel pieno dell’industrializzazione del nostro Paese, diceva delle “macchine inutili”: ’non fabbricano, non eliminano manodopera, non producono niente di commerciabile. Che andrebbero guardate come si guarda un complesso mobile di nubi dopo essere stati sette ore nell’interno di un’officina di macchine utili’. È una bella immagine anche per parlare dei musicisti e della musica. Forse il senso della vita e della resistenza nel pieno del realismo capitalista sta proprio nel perseguire la pratica dell’inutilità».