Alla Maison Heinrich Heine, una delle case della Cité Universitaire, immenso campus situato all’estremità meridionale di Parigi, un convegno internazionale su Hélène Cixous, scrittrice, drammaturga e saggista francese, intitolato Hélène Cixous: corollaires d’une signature, si è sviluppato seguendo sei assi di ricerca differenti – Origini, Memorie, Differenze, Leggere, Scrivere, Arti e Scene. Ed è stato proprio attraverso queste linee di orientamento che si è cercato di elaborare una valutazione scientifica, che riguardasse il contributo offerto dalla studiosa e autrice alla letteratura e anche al pensiero francofono del XX e XXI secolo.
L’apporto di Hélène Cixous in quanto critica e scrittrice femminista si è spartito, infatti, tra alcuni capisaldi del femminismo della differenza, come Le Rire de la Méduse  (1975) o i testi raccolti in Entre l’écriture (1986), ampliandosi in un ambizioso lavoro esegetico attraverso la rilettura delle opere di Joyce, Kafka, Cvetaeva, Lispector e Genet, fino alla sua stessa produzione personale, esempio creativo dell’écriture féminine.
Negli anni Sessanta è stata lei a contribuire alla fondazione dell’Università di Vincennes-St. Denis, attuale Paris 8, insieme a Gilles Deleuze, Michel Foucault e altri intellettuali francesi, invitando alla partecipazione studiosi come Jacques Derrida, Jean François Lyotard e molti altri. Nel 1974, nella medesima università, ha poi fondato il primo Centro di Studi femminili e di genere in Europa. Ed è proprio a partire da qui che vogliamo iniziare questa intervista.

Corollario come corona, ma anche come particolarizzazione rispetto a un enunciato di partenza. In tal senso, possiamo dire che il corollario è una figura della differenza. Il Centro di studi femminili e di genere dell’Università di Paris 8 può definirsi in questo modo?
Certamente, il Centre d’études féminines et d’études de genre di Paris 8 è un corollario, nella definizione floreale di questo termine: cioè corollario come petalo di un fiore. Uno dei miei libri si intitola Corollaire d’un vœu (Galilée, 2015, pp. 160, euro 26), a significare la potenza che attribuisco a questo termine. Ogni corollario non è solo la parte di un tutto, ma già di per sé costituisce uno dei tanti piccoli risultati che si diffondono attorno a un teorema centrale. Ognuno è come un petalo, e il petalo di per sé è già un fiore.

Nonostante la predominanza del francese, la sua opera può essere definita multilingue, quindi in grado di destabilizzare quella dominante. Allo stesso tempo, potremmo definire la sua scrittura come un’esperienza dell’erranza: potrebbe spiegarci come la «langue hospitalière» e l’altra, che ha le sue radici nell’esilio, possono trovare spazi di convivenza?
La mia opera è multilingue ma non babelica. Non si tratta, infatti, del babelismo di Joyce, anzi per essere più precisa, quello di The Finnigans Wake con le sue diciotto lingue; non è quella lingua così proteiforme e stratificata. La mia opera è scritta in francese, essendo la mia lingua «naturale», quella con cui discorro quotidianamente. Tuttavia questo idioma si mescola al tedesco e all’inglese: nella mia produzione, tutte le lingue si parlano tra loro, dialogano, diventando una sola «lingua poetica». Lascio che si intreccino, meticciandosi tra di loro, con estrema libertà – la stessa libertà del gioco.
Accogliendo lingue altre – oltre il francese – mi trovo d’accordo nel definire la lingua delle mie opere «ospitante»: questa definizione corrisponde al luogo simbolico ideale a rappresentarla. La mia non è però una lingua dell’esilio, se lo si intende come momento della dispersione, perché è piuttosto un idioma che ammette e dà asilo.

Lei ha affermato che «gli autori, anche viventi, sono già morti». Può spiegarci meglio cosa ha voluto intendere con questa sua dichiarazione?
«Scrittore vivente» è un’espressione idiomatica, usata frequentemente in francese. Non ci sono ragioni per qualificare uno scrittore come morto o vivente, poiché un autore è sempre morto. Morto rispetto al testo, che invece vive indipendentemente da te quando sei in vita e continuerà a esistere al di là di te, nei momenti successivi alla tua scomparsa. Il testo letterario ha delle temporalità indipendenti rispetto alla vita di chi lo ha scritto: può essere messo a riposo, ha infatti delle fasi di quiescenza o di resurrezione autonome. Anche nel momento in cui mi si pongono dei quesiti in presenza io mi trovo in difficoltà, poiché mi sembra impossibile dare una riposta che non sia «abusiva». É illusorio credersi «padroni» del testo, e in ogni caso tale illusione svanisce proprio grazie al testo: il testo è sempre più forte dell’autore, più libero, va altrove. Dove proprio non ti aspetti.

Peggy Kamuf, docente di letteratura comparata all’University of Southern California, ha definito la sua scrittura un tentativo di «lasciare aperta la piaga, di mantenerla in vita»…
Peggy Kamuf ha fatto allusione a un mio testo del 2011 su Jean Genet – Entretien de la blessure (Galilée, 2011, pp. 87, euro 19). Genet ebbe un’infanzia dolorosa: abbandonato dai genitori conosceva solo il nome della madre, Gabrielle. Entrò nella letteratura tramite la sofferenza e le lesioni, essendone ben consapevole. Da allora in poi ogni sua opera visse grazie a quella sua ferita originaria e venne alimentata nel tempo dal sangue versato e dal furto. Si pensi a Journal du voleur (1949). La sua opera risente di questa ferita originaria quando scrive ad esempio della decapitazione, dei condannati a morte. La ferita originaria è una miniera in cui scavare, per trasformare la piaga da cui tutto nasce nel beneficio della scrittura. Un altro esempio fondatore in tal senso è la «felix culpa», locuzione latina tratta da un’omelia di San Agostino. Secondo quest’ultimo, il peccato condurrebbe alla felicità, cominciando proprio dal peccato originale senza il quale non ci sarebbe né resurrezione né redenzione. La letteratura è parimenti una «felix culpa».

Parlando dello spettacolo «Le Dernier Caravansérail» del Théâtre du Soleil (con il quale Hélène Cixous collabora, ndr) lei ha asserito: «L’Europa che ha inventato il Rifugiato deve rendergli conto». Può dirci in che senso?
Tutto quello che abbiamo fatto da quando ho iniziato la mia collaborazione con il Théâtre du Soleil e Ariane Mnouchkineriguarda la questione dei rifugiati: all’inizio, si trattava dei cambogiani, poi degli indiani. Ci fu anche chiesto: perché non scrivete uno spettacolo su Sarajevo, sulle stragi dei Balcani? Io risposi che quando si scrive la storia di un popolo annientato si scrive quella di tutti i popoli annientati nel corso del tempo, a prescindere dalle contingenze. Le Dernier Caravansérail riguardava gli iraniani, gli iracheni, gli afgani. Ogni volta la scena si spostava e ancora si procede così, spostandosi. Ora è in Siria. La scena cambia di volto e la catastrofe ricomincia. Non conosco il volto che avrà tra vent’anni o cent’anni, ma la catastrofe avrà luogo. L’umanità funziona così, per massacri.