Tra le teorie dei giochi e l’arte della guerra, il confronto tra India e Pakistan, come due frammenti di un’unica moneta spezzata, si moltiplica in riflessi spettacolari, che ora assumono dimensioni deflagranti (campagne militari, attentati), ora sfumano in un logorante conflitto a bassa intensità che avvilisce l’esistenza di chi vive in zone come quella del Kashmir. A volte però il conflitto prende una dimensione mediata più simbolicamente. In questo articolo esamino velocemente due dimensioni di conflitto simbolico. Una è quella spettacolare del cinema di Bollywood, che traspone il conflitto in un contesto di antagonismo sportivo elaborato dal codice cinematografico. L’altra è il rito da stadio, ugualmente spettacolare, della chiusura della frontiera sulla strada che da Amritsar, nel Punjab indiano, città sacra dei Sikh, conduce fino a Lahore, in Pakistan. Un sorprendente evento a cui ho partecipato nella sezione Very Important Person (VIP).

Cominciamo con Bollywood. Il film è Lahore di Sanjay Puran Singh Chauhan e il titolo prende nome da una importante e problematica città pakistana, un tempo una delle più importanti e belle dell’Industan. Me lo guardo a Mumbai in un caldo marzo del 2010, in un cinema con schermo e volumi di una tecnologia elevatissima. Roba che in Italia neanche ce la sogniamo. Le sedie diventano poltrone e io sono subito sdraiato, come spesso mi capita, visto che al cinema ci vado anche a vedere film in Hindi che non capisco, senza nemmeno la sottotitolazione in inglese. Stavolta però l’atmosfera è diversa: la gente non parla, non balla, non fischia, non mangia.

Si attenua la luce, scorre il solito foglio della censura che approva la pellicola, con timbro ufficiale della burocrazia cartacea indiana. Adesso mi aspetto i titoli, invece la gente si alza alla prima nota. Parte l’inno nazionale indiano, che viene cantato a squarciagola prima della pellicola patriottica. Io sono sdraiato con delle frittelle di verdure al curry in bocca. Io non canto neanche quando gioca la nazionale di calcio, anzi, cerco di fare altro. Immaginatevi il mio imbarazzo quando metà sala si volta per guardare me, l’unico europeo in platea, che manifesta disinteresse verso l’inno nazionale. Per evitare guai pesanti, rilasso i miei bollori internazionalisti e mi alzo in piedi. Le parole non le conosco e sono stonato: mi considero esonerato dai doveri del bel canto.

Poi finalmente comincia il film. Immagino che gli spoiler non vi preoccupino, quindi vi riassumo la faccenda. É in fondo un film alla Rocky IV. Pugni e pedate: si fa kick-boxing in stile curry indiano. I buoni sono Indiani e i cattivi Pakistani. I primi sono leali, coraggiosi e amano la famiglia. I secondi scorretti e pieni di trucchi crudeli. I primi si allenano in efficienti e ipermoderne palestre colorate, mentre i secondi fanno scuola di barbarie sulle montagne del Waziristan in basi che sembrano fortini di Al Quaida.

Degli Indiani sappiamo tutto, dei Pakistani vediamo solo facce con le stigma della brutalità. Gli Indiani vincono e i Pakistani sono sleali anche quando perdono. Le donne Indiane sono belle, quelle Pakistane… beh, anche quelle Pakistane sono belle. O meglio, se ne vede solo una, e non è bella, è stratosferica, però dopo cinque minuti è già innamorata di un Indiano (forse perché l’attrice che interpreta la Pakistana è Indiana). Le altre donne Pakistane non si vedono nemmeno. Insomma, “Lahore” è fatto tutto di questo passo. Quando va bene, per i Pakistani c’è la stessa ammirazione che Cesare provava per i Galli. Incivili, ma coraggiosi.

Ma nel finale, tutto cambia: si fa la pace, ci si abbraccia e si lancia un messaggino pacifista. Doveroso e retorico. Che però non è bastato ai Pakistani, che nemici sono sì, ma anche appassionati spettatori del cinema di Bollywood. Il film, ahimé, non ha passato il filtro della censura di Islamabad. Brutti e cattivi sì, questi Pak, ma mica scemi. Insomma, il conflitto Pakistan-India in chiave spettacolare non è riuscito bene sulla pellicola di Bollywood. Ma la realtà sa ancora offrire spettacoli migliori della macchina-cinema.

Eccomi infatti, dopo poche settimane, nel marzo del 2010, al confine tra i due paesi nati dalla sciagurata partition di Lord Mountbatten, sulla strada che da Amritsar porta a Lahore.

Lasciamo la fiction cinematografica: questa, fatta di filo spinato e cartelli intimidatori, è la realtà. Il match tra India e Pakistan si svolge all’interno di uno stadio, costruito al confine tra i due Paesi, sulla strada che da Amritsar conduce a Lahore. La cosa è cominciata anni fa per gioco: il confine chiudeva alla sera e qualcuno, dai due lati, veniva a fare un po’ di casino prima della chiusura dei cancelli. Col tempo la gente è arrivata sempre più numerosa, la chiusura della frontiera è diventata una cerimonia e India e Pakistan, ognuno per conto proprio, hanno costruito l’emiciclo di uno stadio che ospita ogni giorno qualche migliaio di persone. Anche oggi, e per fortuna, il confine rimane abbastanza permeabile. Famiglie vanno a trovare i parenti rimasti dall’altro lato, viaggiatori passano su quattro ruote, merci si spostano lentamente su camion che sbuffano gas di scarico. Fino a quando il transito viene fermato, un’ora prima del tramonto, per la messa in scena della chiusura della frontiera.

E qui mi trovo adesso. E non sono certo solo. La gente attorno a me continua a affluire. I militari ci smistano. Io sono dirottato su una fila diversa, riservata alle Very Important Person. Siamo mica pochi: secondo me tutti quelli che guadagnano più di dieci dollari al giorno. Ci sono anche i fricchettoni con lo zaino in spalla, della cui categoria posso grosso modo far parte. Gli indiani per ora sono tanti, come sempre, una massa di sari colorati e di uomini con baffi e camicia bianca o barba e turbante. Gli spalti pakistani non tarderanno a riempirsi. Lungo la strada che taglia come una diagonale lo stadio, congiungendo Pakistan e India, camminano pigri alcuni militari in alta uniforme.
Non si lesinano le bandiere. Ne circolano di enormi, montate su aste di legno che qualcuno mette in mano a delle adolescenti lanciate in corsa fino al confine, per la gioia del fotografo che le immortala. Seguo queste patriottiche centometriste, poi mi distraggo alla vista di una turista occidentale che si infila proprio accanto a me.

La tipa ha un’aria sofferente, mi chiede se non mi dispiace farle un po’ di posto. La guardo, ha l’aria di chi non si sente bene, è un po’ verde in faccia. Forse la bolgia non l’aiuta a respirare. Ho allontanato un po’ lo sguardo dalla frontiera, d’un tratto sento “la curva” pakistana esplodere. Alzo la testa come quando in una partita di calcio ti sei distratto e qualcuno ha infilato la palla in rete, ma qui non si gioca a pallone. Una ragazza indiana però ha fatto autogol: è caduta lasciando rotolare la bandiera a terra, aizzando il tifo pakistano che moltiplica urla e risate. Ma il contropiede indiano è efficiente: le donne fanno invasione di campo, scendono sulla strada verso i cancelli e si mettono a ballare sul ritmo di forsennate canzonette. Le pakistane, più compite, le guardano in silenzio, mentre le mossette si fanno sempre più insolenti. Il volume si alza: la musica è un tecnopop che ripropone motivi di Bollywood in salsa nazionalista.

Tutti cantano, uomini, donne e bambini indiani. I pakistani replicano al grido di “Pakistan Zindabad” (viva il Pakistan). E gli indiani rispondono: “Industan Zindabad”. Simmetria perfetta, anche le parole sono le stesse, oltre ai colori e alle facce. Siamo di nuovo al pareggio.

La biondina accanto a me fa qualche parola, dice che è tedesca e che ha mangiato qualcosa che le ha fatto male, cosa che capita spesso in India. Mentre tutti sono in piedi, lei mi dice che preferisce stare seduta con le mani sullo stomaco. Mi chiede di dirle quando comincerà lo spettacolo ufficiale, così si alzerà.

In basso il caos viene disciplinato dai militari agghindati nell’uniforme da parata. Respingono le donne danzanti sugli spalti e il casino viene organizzato da un tipo atletico in maglia bianca attillata e scarpe da ginnastica. Adesso si balla sugli spalti e il tipo, che sembra un coreografo rubato a Bollywood, comincia a suggerire le mossette al pubblico in delirio: su le mani, pugni chiusi, braccio sinistro verso il cielo. È un masala-Cecchetto in chiave patriottica: fantastico. Il gioca-jouer antipakistano va avanti ancora per un po, poi “Cecchetto” passa il microfono a un militare. Suonano le trombe, un soldato lancia un canto che si chiude in un barrito che dura svariati secondi: continua a tenere la nota in apnea, poi prima di svenire si cheta. Menomale.

Non capisco cosa succede sul lato pakistano, vedo bandiere verdi, mezzelune, mi sembra una situazione meno casinista del mio lato. Adesso il silenzio scende sullo stadio. I militari scattano in una sorta di passo dell’oca. Parallelamente la marcia si ripete sul lato dei pak, solo che qui le divise sono kaki e là nere. Ora i militari sembrano dei burattini, anzi, dei pinocchietti con le articolazioni legate con l’elastico, come quelli con cui giocavo da piccolo. Le evoluzioni durano per un po’, poi suona l’ammaina-bandiera, un soldato indiano comincia a calare la bandiera indiana, mentre l’omologo pakistano depone la bandiera verde del Pakistan. Il tutto in totale simmetria, per evitare che uno dei due paesi prevalga sull’altro.

Ma diavolo, mi sono dimenticato della tedesca. Sta seduta, piegata in due, poverina. Le dico che lo spettacolo è nel suo epicentro, una bugia a fin di bene: in realtà siamo ai supplementari. Lei si alza, vede le due bandiere, si ripiega di colpo e si mette a vomitare. E proprio su una delle mie gambe.

È il suo contributo alla cerimonia patriottica? Io le reggo la testa, i conati si esauriscono, lei mi ripulisce le scarpe, le dico di lasciar perdere. Si vergogna così tanto che preferisce defilarsi. O forse sta troppo male. Quando alzo gli occhi, le bandiere sono già state ammainate, piegate e messe a nanna. I cancelli sono chiusi, i nemici non entreranno nel sacro suolo stanotte. La folla comincia a scendere dagli spalti.

Me ne vado via anch’io, mentre i venditori ambulanti di frittelle cominciano a scalpitare. Lungo la strada mi rendo conto che il confine è recintato da tre linee di filo spinato e che un cartello suggerisce di non toccare la rete, se non si vuole prendere una bella scossa. Pochi passi e trovo un cartello bianco con una scritta ripetuta in diversi alfabeti indiani e in inglese: “India, the Largest Democracy in the World, Welcomes You”. Appoggiato al cartello di benvenuto della sedicente democrazia più grande al mondo, un tizio si mette a pisciare. Gran benvenuto. Un sovversivo? Un infiltrato pakistano? Un atto di terrorismo? O semplicemente un patriota dalla vescica troppo debole?

Mi immagino che sul lato pakistano stia accadendo lo stesso, che qualche ignoto critico delle retoriche di confine stia facendo la pipì su quei cartelli e quei fili spinati e quei cavi elettrificati che dividono persone che parlano una stessa lingua. Cammino verso il mio risciò, tra file di venditori ambulanti che aspettano il reflusso della marea di spettatori. L’odore del piscio si somma al lezzo degli acidi gastrici della tedesca vomitante. Dietro lo spettacolo e la retorica, di carne e liquidi son fatti tutti gli umani, da questo come dall’altro lato della frontiera. Insomma, anche sul sacro confine, rovesciansi gli stomaci e debordano le urine.