A una figura complessa, e spesso sottovalutata, nell’architettura italiana del Novecento, il MAXXI di Roma dedica un documentatissimo riconoscimento nella mostra Gio Ponti – amare l’architettura (fino al 13 aprile), accompagnata da un ricco catalogo. Vi troviamo, in una cornice di fotografie («Nuovi sguardi») che costituiscono nello specifico linguaggio una forte lettura delle opere, tutto il lavoro di Ponti (1891-1979): realizzazioni, studi, plastici, progetti, con il materiale fornito dai Gio Ponti Archives e dal CSAC dell’Università di Parma; e interventi critici che ne illuminano tutte le sfaccettature, dal ruolo delle riviste da lui dirette («Domus», «Stile») all’attenzione per la natura inserita nella concezione architettonica, dalla concezione urbanistica ai rapporti con altre figure fondamentali, come Libera, Nervi, Moretti.
Roma aveva già dedicato all’architetto milanese, nel 2011, una bella mostra incentrata sulla sua produzione ceramica, in particolare per la Richard-Ginori (Gio Ponti. Il fascino della ceramica, Villa Torlonia), produzione cui si accenna anche nell’attuale occasione. Già lì era emerso quel carattere che ha indotto molti a definirlo, in modo abbastanza sbrigativo, «né classico né moderno». In realtà vi si evidenziava il fine interprete, di una sensibilità intenta a riprendere il filo della Storia, nelle iconografie incardinate nella cultura mediterranea, ma trasfigurate da una limpida semplificazione vicina a ricordi liberty e in seguito dall’essenzialità di un razionalismo mai anonimo né iconoclasta.
Irace e Casciasto i curatori
Il titolo della nostra mostra richiama il libro di Gio Ponti Amate l’Architettura (1957), che, insieme al precedente L’architettura è un Cristallo (1943), può considerarsi la dichiarazione di una poetica e di un’idea sociale del progettare. Uso il termine «poetica» consapevolmente, perché uno dei caratteri fondamentali di tutta la sua concezione è proprio la volontà di ribadire nel suo lavoro, pur radicato nella tradizione funzionalista europea, l’espressione di una «realtà artistica». Nel saggio Architettura come cristallo. Dalla forma chiusa alla pianta articolata, la produzione di Ponti viene riletta da Fulvio Irace – curatore, con Maristella Casciato, della mostra – in chiave di aspirazione al «leggero», opzione ben espressa nel 1946 dallo stesso Ponti: «Ci sarà uno stile leggero e trasparente, semplice, collegato ad uno stile sociale semplificato». Altre testimonianze importanti, e bellissime, di Ponti sono tratte dallo studioso da un dattiloscritto inedito del 1972; sulla concezione della «torre», ad esempio, come prefigurazione di città «magiche, specchianti la luce al loro apparire da lontano, tutte argentee e lucenti, tutte punteggiate di riflessi, di ombre, di superfici solari e di superfici ombratili profonde come gallerie con in fondo un po’ di cielo; e con i profili del cielo (le skylines) pieni di sorprese».
Tra le costanti rintracciabili fin dagli esordi è la funzione sociale e civile dell’architetto (è impegnato nel problema della ricostruzione postbellica) e la collaborazione tra le arti. Su quest’ultimo punto, che vede Ponti attivo anche come artista (ceramiche decorative, sculture, tessuti, lavori in perspex) o progettista di oggetti d’uso (dalle posate per Christofle agli arredi da bagno per Ideal Standard), esemplare è già il suo lavoro nell’Università di Padova (1934-’41), nel palazzo del Rettorato e soprattutto nel Liviano, concepito per ospitare nella sala di ingresso un grande affresco di Campigli e il Tito Livio di Arturo Martini, dove interviene in ogni elemento dell’arredo. Nell’università di Roma ideata da Piacentini aveva già realizzato la Scuola di Matematica (1932-’35), un edificio dalla libertà planimetrica, sintetizzata nella contrapposizione di corpi curvilinei, eccezionale nell’Italia di quegli anni: una qualità innovativa non sempre sottolineata negli studi, piuttosto focalizzati sugli edifici di Pagano e Capponi nella stessa Università.
Una svolta significativa nel percorso di Ponti avviene con la progettazione del Grattacielo Pirelli a Milano (1956-’60, siamo intorno alla data di pubblicazione del libro), rimasto per molti anni simbolo del suo intervento innovativo. Nella pianta, pur simmetrica, si inserisce l’elemento triangolare, poi più volte ripreso, mentre la nettezza nell’incastonamento delle vetrate realizza, nei 127 metri d’altezza, una superficie unitaria. La concezione dell’edificio come «forma finita», cui non è possibile aggiungere nulla verticalmente e lateralmente, si distingue dalla modularità dell’International Style, creando un modello peculiare italiano.
Seguono altre commissioni, numerose internazionali, per edifici in cui emerge la libertà planimetrica e l’innovazione tipologica, come il Denver Art Museum (1966-’72); e altri in cui la sua originalità entra in contatto con culture diverse (Pakistan House Hotel e Palazzi dei Ministeri a Islamabad, 1962-’64) o con destinazioni particolari. L’idea del cristallo come «forma chiusa» non implica, nota Irace, una chiusura nel volume ma, al contrario, la sua liberazione nelle superfici delle pareti. Vi concorre una complessità di mezzi: l’articolazione della pianta che annulla il tradizionale parallelepipedo, le finestre a filo, che negano l’alternanza di «pieno» e di «vuoto» sulle pareti, o le finestre sottili, che disegnano verticalmente le murature, nonché i rivestimenti lucenti di ceramiche create dallo stesso artista: non sempre l’organicità di questi ultimi è stata compresa, se si pensa all’ironico (e forse sciovinista) commento «di alcune anime inclementi» al progetto per il Denver Art Museum («un castello italiano avvolto nella carta stagnola»), riportato dal New York Times. E infine la foratura della parete: un canto libero e al tempo stesso un omaggio alla tradizione gotica è nella smaterializzazione della facciata nella Concattedrale di Taranto (1963-’71), dove si realizza anche una concezione religiosa dell’arte, vicina a quella dell’amico Moretti.
Queste sono tra le realizzazioni più note. Ma la sua sedia battezzata Superleggera (1957), prodotta da Cassina, esposta in questa mostra appesa al muro, stimola una riflessione che, da un oggetto apparentemente tanto semplice (e per decenni tanto imitato), può estendersi a tutta la sua produzione, non solo ai «capolavori» che risultano più affascinanti, quanto soprattutto là dove l’originalità si presenta, per così dire, più in sordina, collegandosi all’economicità, come nelle Domus o «case tipiche» di Milano (1931-’38) o nella «Casa Adatta» proposta nel 1970. Il tema dell’abitazione ha trovato ampio spazio nella mostra Tutto Ponti. Archi-Designer (2018-’19, MAD, Parigi): co-curatrice era Sophie Bouilhet-Dumas, nonna di Carla, nipote di Ponti, che sposò Tony Bouilhet, proprietario di Christofle, per il quale Ponti, nel 1927, progettò la villa (tipicamente «italiana») L’Ange Volant di Garches.
A Milano la Casa in Via Dezza
Quell’angelo sembra ritornare nei ritagli applicati alla parete vetrata del suo appartamento nella Casa in Via Dezza a Milano (1957), in cui abitò fino alla sua fine. Questa è tra le realizzazioni più significative del suo «modo» di abitare: uno spazio aperto, dove le funzioni sono organizzate da porte scorrevoli e sono continuamente modificabili, interamente arredato in una concezione unitaria. All’esterno l’uniformità è superata dal cromatismo dei prospetti e dei pannelli inseriti nelle balaustre, diversamente colorati, prevedendo di consentire agli abitanti di scegliere i propri colori.
Un alto esempio di interrelazione tra architetto e committente è la Villa Planchart a Caracas (1953-’57), un’opera particolarmente amata da Ponti. Pianta, destinazione degli spazi, misure e arredi vengono mutati più volte, in base a scelte concordate tra l’architetto e i clienti, come dimostra il fitto scambio epistolare corredato da disegni, che i due coniugi potevano completare secondo le proprie aspirazioni. La stessa interrelazione è nella produzione di mobili e oggetti, in una deliberata idea di design italiano. In un video posto accanto alla Superleggera Ponti ricorda, a distanza di anni, come prima di realizzarla avesse sentito il parere di un ortopedico e di uno psicologo. Consapevolezza costruttiva e rispetto per l’utente non gli sono stati sempre riconosciuti. La lezione di un’architettura intesa al tempo stesso come spazio dell’artista e spazio dell’umano abitare è un tema su cui siamo invitati a riflettere