Quando nel 1956 Allen Ginsberg scrisse di getto il fulminante e magnifico inizio di Urlo: «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia», non si riferiva soltanto agli artisti suoi sodali evocati nel poemetto (Peter Orlovsky, Carl Salomon, Neal Cassady), associati alla madre, chiusa in manicomio. In era maccartista, il suo sguardo era sicuramente allungato sul panorama delle lettere americane: uno scenario non certo felice, pur nella rassicurante e attiva presenza disagiata di voci eminenti e nelle promesse dei più giovani. Quegli anni furono per alcuni poeti, anni, sì, di pazzia vera o attribuita, provocata più che da disturbi personali dal contesto di soffocante sospetto di deviazione dal consenso al tradimento dei veri valori americani, perpetrato dai responsabili del sistema. Il tutto unito all’esasperato inseguimento di un capitalismo/consumismo che metteva a rischio molte libertà individuali. Sono anni di suicidi per la migliore intellighènzia. Ecco, la necessità dell’urlo-richiamo, lanciato da San Francisco.
Sono i poeti beat a suonare la campanella, un suono che sarebbe poi esploso nella Bomba (Hiroshima e ben altro) di Gregory Corso e che avrebbe trovato pubblica manifestazione nel movimento degli hippie degli anni sessanta. Questi ultimi furono lacerati da un assassinio politico che la diceva lunga (non tutta) su un maligno governo occulto; un trauma tagliente, delegato a fare da vero detonatore della psicosi della sopita mente americana, e del conseguente sconquassamento della famiglia americana, capace di provocare le migrazioni dei figli sulla strada (anche psicotropica), da easy riders, determinando un improvviso diaframma psicologico nei confronti del passato: una rottura epocale, mai cicatrizzata. Non a caso, insiste a ripeterlo oggi Don DeLillo. La frattura avvenne lì, nell’omicidio in Texas, di cui faranno oggetto di canto elegiaco (contestualmente rivolto anche alla vecchia America) Bob Dylan, Joan Baez, Simon & Garfunkel e altri: i menestrelli della strada, discendenti dell’aura beat.
Questo è lo sfondo contro cui si situano i saggi di Ginsberg, raccolti magistralmente da Bill Morgan, sotto l’egida di Anne Waldman, poetessa beat anche lei, in Le migliori menti della mia generazione Lezioni sulla Beat Generation (traduzione di Sarah Barberis e Leopoldo Carra, il Saggiatore, pp. 479, e 38,00), libro immancabile a capire meglio non solo la poetica, il bebop, l’epica e la religiosità «angelica» dei beat (la loro ricerca dell’ascesi buddista) ma il timbro di quel decennio, avvelenato per di più da una guerra in Vietnam del tutto pretestuosa, con obiettori di coscienza in fuga verso il Canada.
I saggi collazionati sono quarantanove. In realtà si tratta di «lezioni», tenute da Ginsberg nel 1977 presso il Naropa Institute e il Brooklin College, in cui egli ricostruisce consapevolmente, sia pur con vuoti mentali, un patrimonio di testimonianze e aneddoti – correnti dal 1959 al 1967 – sulla nascita e la formazione del gruppo, dominato all’inizio da Lucien Carr, giovane apparentemente «angelico», da lui incontrato alla Columbia University di New York, e mediatore tra Burroughs, Kerouac e lo stesso Ginsberg, determinando con quegli incroci un insensato groviglio queer di amori intrecciati. Carr finirà con lo sparire nel tempo.
I protagonisti più centrati sono Jack Kerouac (Sulla strada, I vagabondi del Dharma), William Burroughs (Pasto nudo) e Corso (Gasoline). Manca un focus sull’altro pilastro di origine italiana, Lawrence Ferlinghetti, il fondatore della City Lights di San Francisco – la collana di contro-poesia che accolse Pasolini –, del quale quest’anno si celebra il centenario della nascita, ma al quale, in fondo, Ginsberg era meno legato. Burroughs, conosciuto, su suggerimento di Lucien, al Greenwich Village, fu per Ginsberg la prima guida alla «liberazione omosessuale», e per questo, oltre che per le sue capacità psicoterapeutiche e la sua pungente dottrina letteraria, da lui riconosciuto in seguito come il generatore di una «nuova visione» che puntava alla «realtà suprema». Ambizioni alte per un giovane studente che alla Columbia riscuoteva, con i suoi mezzi, l’ammirazione nientemeno che di Lionel Trilling e Mark Van Doren. Ma furono le sue nuove compagnie a ‘rovinarlo’: Kerouac era stato già espulso per la sua «malsana influenza sugli altri studenti», e a Ginsberg toccò lo stesso trattamento, quando lo ospitò per una notte nella sua stanza e, svegliandosi non soddisfatto da un’innocente condivisione di letto, si convinse dell’antisemitismo della donna delle pulizie, lasciando un «Fanculo ebreo» sui vetri sporchi. «Direi – commenta in seguito Ginsberg sull’espulsione dopo aver letto Céline, – che è l’essenza hip, lo spirito di chi si sveglia in mezzo alla società e si accorge che sono tutti pazzi. Che tutto è uno schema folle per distruggere tutti e che nessuno ne uscirà vivo». La modalità hip, nacque allora.
«Intorno al 1950 o 1951 m’imbattei in Gregory Corso al Pony Stable, un locale per lesbiche al Greenwich Village – ricorda Ginsberg, come un Walt Whitman in cerca di rispecchianti anime consenzienti –. Era appena uscito di prigione per trascurabili problemi di delinquenza minorile. Era un solitario che vagava da solo nel Village. Era un ragazzino con i capelli molto scuri … molto affascinante, intelligente, viso vispo con una sfumatura di oscura mafia italiana, un aspetto cherubico … Era in giro da solo senza nessuna meta particolare, forse volevo trovare qualcuno con cui andare a letto o da incontrare, forse stavo cercando Gregory Corso, che ne so». E continua: «Stavo già collaborando con artisti come Kerouac e Burroughs, quindi avevo la vaga sensazione di avere una specie di bacchetta magica da rabdomante per la bellezza poetica. Quando lessi una poesia di Corso fui immediatamente colpito dal fatto che era immortale in un modo molto buffo. Le poesie che vidi non esistono più e l’unica che mi ricordo è una poesia che iniziava così: ‘Il mondo di pietra venne a me e disse: ‘La carne ti concede un’ora di permesso’». Ginsberg, ormai gay visionario, interpretò quel mondo di pietra come un mondo dell’eterno, visto «nelle visioni di Blake», o il mondo della sua «realtà suprema» con qualche segno mistico che in realtà non c’era. Ma fu così che Corso fu adottato dalla confraternita.
Cresciuto in un orfanotrofio, Corso fu un altro dotato e «distrutto», che cercherà salvezza e bellezza a Roma (anche in cerca di tracce della madre pugliese), sua città di elezione, come fu per Keats e Shelley, i mentori che egli amava, e con i quali ora, dopo la morte nel 2001, condivide la sepoltura al Testaccio. Lo si vedeva negli anni ’80-’90, ciondolare tra il bar del Fico di allora, vicino a Piazza Navona, dove arrivava anche Amelia Rosselli, e Campo de’ Fiori, spesso abbandonato (sfatto) sopra un divano: distrutto ormai dalla sua stessa bomba e dalla nostalgia degli inizi, e forse dai fallimenti a lungo raggio della protesta beat.
Fu l’ultimo a resistere in un mondo sfatto. Kerouac fu il primo ad andarsene, per cirrosi epatica, nel 1969, dopo un disastroso e unico viaggio in Italia, con conclusione a Napoli, ospite del locale docente di Anglistica. Era un uomo finito, fradicio fino alle ossa, che rispondeva fischi per fiaschi alle domande che gli venivano porte. Arrivò a pronunciarsi a favore della guerra in Vietnam. Qualcuno lo rimosse pesantemente dalla poltrona e lo riportò in albergo, dove trascorse, dormendo, le ore più felici passate in una Napoli cullante. Burroughs e Ginsberg, i più lucidi, resistettero fino al ’97. E così finì, tra glorie e dolori, la coraggiosa avventura della rivoluzione dei leader della Beat Generation, vincitrice, comumque, su uno stallo culturale abbattuto per sempre.