Intorno ai 15 anni si era seduto per la prima volta davanti a una batteria; rimase sorpreso: riusciva a suonarla. Non a caso Ginger Baker, lo storico batterista dei Cream scomparso domenica a 80 anni, era convinto che fosse un dono divino; un dono che tocca solo a pochi batteristi, inutile sforzarsi e fare pratica. Il suo modo di stare dietro lo strumento era imperioso, turbolento, con quelle bacchette che roteavano da matti e che l’avrebbero trasformato in una delle prime superstar dei tamburi, forse la prima. La sua fama è legata soprattutto ai Cream, gruppo di cui faceva parte con Jack Bruce e Eric Clapton e in cui, tra litigi e animosità varie, ha esordito nel 1966. Influenzato da jazz, blues e afrobeat, ha suonato con i Blues Incorporated di Alexis Korner (sostituirà Charlie Watts alla batteria), con i Graham Bond Organization, con il supergruppo Blind Faith, ha avviato progetti solistici (va segnalato in particolare Ginger Baker’s Air Force e Baker Gurvitz Army) e collaborato con una schiera di artisti, da Fela Kuti ai Public Image Ltd.

IL SUO STILE – caratterizzato dall’utilizzo della doppia cassa, dalla predilezione per gli assoli (storico, e tra i primi esempi su disco, quello nel pezzo Toad) e dalla fusione di più generi – lo rendono uno dei maggiori batteristi di sempre. La cosa più bizzarra è che non si considerava affatto un rocker, e non solo non apprezzava il genere in sé ma nemmeno quello che gli girava intorno. Piuttosto diceva che quello che suonava era jazz, e proprio come avviene in tanti ensemble jazz era riuscito a rendere le percussioni centrali nel suono dei Cream. Dotato di un carattere particolarmente spigoloso e bilioso, teneva in ben poco conto i colleghi: e se per lui i Rolling Stones non erano grandi musicisti e Mick Jagger «musicalmente un cretino» (musical moron), John Bonham (Led Zeppelin) e Keith Moon (The Who) erano assolutamente normali. Per non parlare di Paul McCartney che disdegnava perché non sapeva leggere la musica. Proprio l’ex Beatles l’ha però omaggiato con tweet ricordando quanto fosse stato grande e selvaggio. Nel 1981 si era trasferito in un casale in Toscana dove aveva cominciato a produrre olio d’oliva e a disintossicarsi dall’eroina. Si racconta che in quel periodo la malavita locale fosse convinta che l’olio era solo una copertura per vendere droga e come ammonimento – e invito ad andarsene – gli avesse ucciso uno dei suoi cani prediletti.

OVUNQUE ANDASSE, il caos lo seguiva; come in Nigeria, anni prima, quando decise di metter su uno studio di registrazione a Lagos (è in quell’occasione che conosce Fela Kuti) e gli andò tutto male, tra tensioni con i soci e con la corrotta polizia locale. Lo stesso Ginger (vero nome Peter Edward Baker) – così soprannominato per via dei capelli rossi – raccontava che il momento più bello della sua esistenza era quando stava su un palcoscenico, lì era come se una forza o qualcuno si impossessasse di lui, il vero caos cominciava quando scendeva dal palco. Riascoltarlo in classici dei Cream come Sunshine of Your Love o White Room è una delizia.