Il negoziato di Ginevra non si apre tra applausi e speranze di una exit strategy. Quel tavolo fine a se stesso – obiettivo e non mezzo per la transizione – è una presa in giro. Lo è per i siriani schiacciati da 5 anni di guerra civile, lo è per i 7 milioni di sfollati interni e i 5 milioni di rifugiati all’estero, costretti in campi profughi in Medio Oriente o cacciati come prede mentre cercano salvezza in Europa. Il fallimento dei tentativi diplomatici delle Nazioni Unite, che sembrano strumento per allungare i tempi del conflitto, non farà che aggravare un’emergenza che è epocale.

Ieri le opposizioni riunite nell’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati nato a dicembre sotto l’ala saudita, hanno ufficializzato il boicottaggio “temporaneo”: sono volati in Svizzera, ha fatto sapere uno dei membri, Hassan Abdel Azim, ma non entreranno nelle stanze Onu perché la risposta alle domande poste non è arrivata. Chiedono che il Palazzo di Vetro garantisca la fine dei raid russi e degli assedi governativi sulle città controllate dai miliziani armati. Poi potrebbero sedersi ad un tavolo che non hanno in realtà mai voluto perché la precondizione base, sventolata per mesi, è stata disattesa: il destino del presidente Assad non è stato mai affrontato, né a Vienna a novembre né dalla risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza a dicembre.

L’inviato Onu per la Siria de Mistura, dopo un appello tv ai siriani andato in onda giovedì sera per sponsorizzare la conferenza di Ginevra, ha annunciato comunque il via alle discussioni. Per ora si limiterà alla delegazione del governo di Damasco, guidata dall’ambasciatore all’Onu al-Jaafari: «Continueremo gli incontri con gli altri partecipanti e i rappresentanti della società civile in seguito», ha precisato l’ufficio di de Mistura prima del meeting con i rappresentanti governativi. Ma chi discuterà cosa, se le opposizioni sono assenti? La lista degli invitati resta avvolta nel mistero. Unico fatto certo è l’esclusione dei kurdi siriani di Rojava, dietro preciso diktat turco.

Se si va poi ad analizzare il composito Hnc, si capisce bene che il matrimonio delle stesse opposizioni è artificiale, un’unione sotto un ombrello debole: il comune antagonismo al governo di Damasco. Ma mancano basi comuni sul futuro della Siria, la sua eventuale laicità, i riferimenti socio-economici: lo spettro dei gruppi anti-Assad corre dai salafiti di Jaysh al-Islam ai laici della Coalizione Nazionale (e del suo braccio armato, l’Esercito Libero), dai liberisti dei Fratelli Musulmani ai comunisti, socialisti e panarabi del National Coordination Body, fino agli islamisti ultraconservatori di Ahrar al-Sham.

In merito agli scopi prefissati (governo di transizione, bozza di costituzione e elezioni), le posizioni delle parti rimangono incompatibili, legate a interessi particolari che poco hanno a che fare con la pacificazione interna, con i bisogni reali della popolazione. Sul suolo siriano e sopra il tavolo di Ginevra si gioca ben altro: le potenze regionali e globali ridefiniscono equilibri e spazi di influenza.

Non solo in Siria, ma anche nel vicino Iraq (ieri il Pentagono ha parlato della necessità di inviare altri addestratori e soldati), nel martoriato Yemen e nel futuro terreno di confronto, la Libia. In mezzo restano centinaia di migliaia di rifugiati – un numero destinato ad aumentare – che l’Europa tenta di rinchiudere in Turchia, dietro sbarre tappezzate da tre miliardi di euro: alla propria opinione pubblica Bruxelles spaccia Ankara per un luogo sicuro, fingendo di non vedere la guerra in corso a sud est contro il popolo kurdo, che sta già producendo migliaia di sfollati interni.

La guerra turca contro i kurdi è ancora più grave perché non si limita ai confini del paese, ma si estende a Iraq e Siria. Sia sul piano diplomatico, estromettendoli dal negoziato, che su quello militare: Ankara ha l’obiettivo di impedire l’allargamento delle frontiere di Rojava, anche se questo potrebbe tradursi in un indebolimento della lotta all’Isis.

Le Ypg kurde sono tra le poche forze sul terreno ad arginare gli islamisti. E non si fermano: ieri le Unità di Difesa kurde hanno annunciato il lancio di una nuova operazione verso ovest. Nei prossimi giorni partirà la controffensiva verso le città di Jarablus, Manbik e Azaz, oltre il fiume Eufrate, per Ankara linea rossa insuperabile perché garantirebbe ai kurdi il controllo quasi totale della frontiera con la Turchia.

La foglia di fico dello Stato Islamico è caduta: la coalizione guidata dagli Usa e sostenuta dal Golfo è sempre meno interessata al “califfato”. Lo si vede a Raqqa, bombardata per giorni dopo gli attacchi di Parigi e poi nuovamente abbandonata al proprio destino. A tentare di resistere sono gli stessi civili che ogni giorno di più – riporta il gruppo Raqqa is Being Slaughtered Silently – boicottano la macchina amministrativa dell’Isis, o abbandonandone le fila o rifiutando uno stipendio sicuro. Sono combattenti, ma anche medici, avvocati, insegnanti, una nuova forma di disobbedienza civile pericolosissima per i residenti, lasciati soli.