Incuriosisce la distanza che nel tempo si è allargata tra il cinema di Gillo Pontecorvo, conosciuto nel mondo e amato da registi del calibro di Steven Spielberg, e l’ostinata caparbietà con cui la critica italiana ha accolto i suoi film. Infatti, la celebrità del regista di capolavori avvolti nella leggenda come La battaglia di Algeri non è assolutamente misurabile con la sua posizione nel canone storico del cinema italiano. Qualche luogo comune è andato sfaldandosi: l’edizione in dvd di Kapò, pellicola molto discussa all’epoca dell’uscita per l’anatema lanciatogli da Jacques Rivette sui “Cahiers du cinéma” e rincarato qualche decennio dopo da Serge Daney, ha riconsegnato al film lo status di capolavoro.

Caduto l’argomentare di Rivette, meriterebbe anche di essere riportata alla luce la risposta che Pontecorvo scrisse all’indirizzo del regista di Parigi ci appartiene. Film non citato a caso perché coevo di Kapò. Più volte si è parlato di lui come un’assoluta anomalia nel panorama del cinema italiano, scambiando per presunta pigrizia l’esigua e limitata filmografia quand’invece era solo ansia di perfezionismo: gli era sempre stata accanto nei suoi lavori sin da giovane e la si coglie esaminando i tanti progetti incompiuti, rimasti su carta o non realizzati anche se in fase avanzata di lavorazione.

Su questa incomprensione di fondo, Pontecorvo è stato marginalizzato in zone periferiche e inadeguate alla sua caratura internazionale, sopravanzato peraltro da registi e autori che avevano la medesima formazione intellettuale e provenivano dai ranghi dell’antifascismo militante o derivato.
Una dimostrazione di ciò arriva dal quinquennio trascorso alla direzione della Festival di Venezia e dai palinsesti concorsuali e retrospettivi che riuscì a organizzare, consegnando negli anni ’90 un’idea di cinema che si poteva realizzare anche con i film degli altri. Atto critico raccolto e attuato ancor oggi, pur nelle diverse declinazioni e distinguo.

NUOVA RICEZIONE
Detto questo, qualcosa sembra muovere e spostare da triti luoghi comuni la ricezione critica e storiografica del cinema di Pontecorvo: dalla grande mostra romana organizzata in occasione del decennale della scomparsa e dall’attuale centenario della nascita si sta operando, infatti, una nuova e inedita lettura dell’intera opera che, se ha il suo centro nevralgico di verifica nel suo cinema, riserva ulteriori messe a punto sia di comprensione del suo itinerario intellettuale, proprio nella sua formazione giovanile con le frequentazioni parigine alla vigilia della Seconda guerra mondiale, l’iscrizione al Partito Comunista, la militanza nella Resistenza e l’inizio di un’attività giornalistica che avrà il suo apice con la direzione di «Pattuglia», uno dei periodici destinati alla gioventù comunista e socialista europea, che non avrà vita lunga né facile – e dal 1946-47 al 1953, anno in cui cesserà le pubblicazioni, sposterà la sua redazione da Milano a Roma e nella capitale in più sedi – ma che sarà palestra di vita sia per il futuro regista, che vi lavorerà fino al 1950, sia per la nuova classe dirigente e intellettuale del paese, contando tra i suoi collaboratori Italo Calvino, Andrea Camilleri (la rivista ospiterà una sua poesia dedicata al Natale), Mario Pirani, Enrico Berlinguer, più come intervistato che altro, avendo anche la funzione di supervisore della testata. Tra i collaboratori vi era anche Gianni Rodari.

DIRETTORE DI GIORNALE
È nel 1947 che Pontecorvo viene chiamato dalla direzione del Partito Comunista ad entrare nella rete dei collaboratori di «Pattuglia». Passa un anno e ne diventa il direttore, andando a sostituire addirittura il poeta Alfonso Gatto, che di fatto aveva lasciato già molto prima al giovane collega la guida della rivista.
Il racconto che Pontecorvo consegna a Irene Bignardi parla di una «palla di piombo, soprattutto perché non c’era nessuno tra noi che avesse una vera esperienza giornalistica». Il clima al giornale era però goliardico, Pontecorvo vi sguazzava con i suoi aneddoti e ricordi, il più delle volte non creduti e ritenuti inverosimili. In questo covo del «buon vivere» avviene il fattaccio che allontana Pontecorvo dalla direzione: più che i conti, per giunta rimessi in sesto, fu infatti una vignetta, mal sopportata da Togliatti, a far chiedere la testa del direttore.

La direzione di Pontecorvo si chiuse il 12 marzo 1950 (si era aperta formalmente il 1° gennaio del ’48) e passò a Ugo Pecchioli; la rivista sopravvisse altri tre anni. Venne chiusa il 28 novembre del 1953.

ADDIO COMPAGNI
Nel ’56 Pontecorvo abbandonerà per i fatti d’Ungheria il Partito Comunista, come altri intellettuali, ma non ne lascerà mai lo spirito. La sua battaglia per la libertà degli uomini, per gli oppressi, continuerà con altri mezzi e media e a tutte le latitudini del globo.
Il suo cinema sarà imprevedibilmente studiato da movimenti politici d’opposizione come il Black Panther Party o farà da “training” per le azioni post 11/9 dei Navy Seals.
Una straordinarietà, questa, in cui tutto sembra tenersi e che ha radici anche nella formazione culturale e giornalistica di un uomo che ha lottato e combattuto una battaglia di idee che sfrondasse la realtà dalla semplice cronaca e affondasse le mani nelle contraddizioni della civiltà del ’900.

*L’autore è curatore e autore dell’introduzione di cui qui pubblichiamo un estratto, del volume «Il sole sorge ancora» (Mimesis, 174 pagine, euro 14), che raccoglie gli scritti giornalistici di Pontecorvo per la rivista Pattuglia