Le dirompenti Scapegoating Pictures for London, le ultime fatiche di Gilbert & George, sono visibili fino al prossimo 28 settembre alla White Cube Bermondsey di Londra. Ed è chiaro che i due, rispettive metà di una fascinosa ibridazione umana e artistica, non hanno più alibi: la loro lamentata emarginazione dal mondo culturale britannico non è più ufficialmente sostenibile almeno dal 2007, quando la Tate Modern foderò «n» chilometri quadrati delle proprie pareti con una retrospettiva entusiasmante a loro dedicata.
Dopo il fiele che i nostri avevano versato sulla Tate Britain – declassata, si fa per dire – a ospitare i talenti nazionali, la mostra alla Modern fu un andare a Canossa di tutto l’establishment artistico britannico, per decenni fin troppo cauto nel gettare il proprio peso a sostegno dei due Buster Keaton che per primi avevano colonizzato l’East End.
«Una mostra alla Tate Britain significa il fallimento di una carriera», avevano ripetuto a chi gli chiedeva come mai snobbassero la galleria di Pimlico. La verità è che non c’è nulla di meglio per un artista – vivente – del vedersi riservare lo spazio della Tate Modern, un museo che ospita i protagonisti assoluti del Novecento al di là di ogni confine nazionale. E che ormai, grazie alla felice operazione di archeo-architettura industriale firmata Herzog & De Meuron, vanta un’inattaccabile reputazione.
Ora la coppia più famosa dell’arte contemporanea occupa le pareti della White Cube Bermondsey con questi loro ultimi, impressionanti fotomontaggi che fungerebbero da perfette vetrate per un vasto tempio laico. La galleria è l’ultima aggiunta all’impero del sagace Jay Joplin (forse l’unico gallerista londinese pretendente legittimo alla corona di Charles Saatchi) e, per cubatura e respiro artistico, fa impallidire uno spazio pubblico. Eppure, i due pacati agitatori non rinunciano a posare da figure emarginate, da untori dell’arte, pur rendendosi conto di farlo dall’alto del superattico della scena contemporanea.
«La nostra arte non piace a nessun critico britannico», continuano a sostenere non senza ostinazione. Ma la cosa non sorprende. La loro sovraesposizione mediatica (meritata) e le schermaglie con la critica (ormai un po’ speciose) restano entrambi nel segno delle avanguardie novecentesche di cui i due, immancabili frequentatori dello stesso ristorante turco di Dalston da trent’anni e fecondi autori di aforismi sul vivere artisticamente, sono una versione per il terzo millennio.
Le opere sono tante (Joplin ha fatto costruire un muro divisorio nella galleria pur di accontentarli nell’allestimento), assertive, e, naturalmente, provocatorie. Spiccano i molteplici montaggi fotografici sulla radicalizzazione islamica, un fenomeno oggetto d’infinite discussioni in Gran Bretagna, e gli slogan come «Infibulate un imam» che rischiano di attirare contro la coppia una fatwa stile Rushdie. Se si pensa a quanto pubblici siano il loro domicilio e abitudini, non si può fare a meno di considerarne il fegato, o l’avventatezza.
Inframmezzati al solito sguardo sui giovani bianchi working class già musa di Pasolini nella Roma dalle assolate periferie, i pannelli sono un distillato del materiale raccolto nelle interminabili flânerie in giro per il proprio quartiere, che interrogano come una sibilla, anticipando di svariati decenni gli sviluppi sociali e culturali di tutto l’Occidente. L’ultima pratica, da loro documentata con la consueta precisione maniacale, è quella dell’uso del cosiddetto Hippy Crack, il gas esilarante inalato dai frequentatori dei piccoli club di Brick Lane, le cui capsule vuote, come i bossoli di una mitragliatrice dopo una battaglia, lastricano i marciapiedi la domenica mattina.
Anche per motivi anagrafici (Gilbert Proesch è nato nelle Dolomiti ladine il 17 settembre 1943, George Passmore a Plymouth, nel Devonshire, l’8 gennaio 1942), i nostri sono in bilico fra moderno e postmoderno. Moderno è il loro volere a tutti i costi trascenderequella ineluttabile dualità per addivenire a una singolarità pensante e creativa, come anche la tendenza ad épater tipica dell’avanguardia, seppure purgata dall’afflato trasformativo dell’agire politico. Fatta salva la sempre infaticabile critica al dogma eterosessuale imposto dalla morale cristiana, per il resto sono dei corifei – libertari – dell’esistente.
Postmoderna è la vittima principale delle loro provocazioni: non certo il borghese preso di mira dai surrealisti, del quale hanno anzi voluto programmaticamente indossare i panni tutta la vita, ma il liberal europeo occidentale, quello che in Gran Bretagna spesso legge il Guardian, in Francia Le Monde e in Italia La Repubblica che, dopo le sonore delusioni palingenetiche degli anni Settanta, è approdato a un atollo di individualismo, pur restando aggrappato al multiculturalismo come ideologia corretta e consolatoria. E che dopo aver assistito, pietrificato e incredulo, al naufragio della propria narrativa è costretto a consegnarsi ostaggio delle politiche economiche degli ex avversari, precipitandosi tardivamente a farle proprie.
C’è solo una contraddizione in tutto questo, anch’essa peraltro assai postmoderna. Gli apologeti dell’Altro rappresentato dagli immigrati – soprattutto quelli di religione islamica che dilagano a Brick Lane – un Altro stigmatizzato da G&G non senza rimandi alla retorica truculenta di certo materiale xenofobo ultimamente in auge grazie agli exploit elettorali del sinistro Ukip, sono gli stessi alfieri dei diritti Lgbt, in buona sostanza proprio ciò che costituisce il volano creativo e identitario della strana coppia. Ed è qui che si situa l’appannamento del sarcasmo, la dissonanza nell’altrimenti perfetto accordo di questi nuovi lavori.
Perché se il radicalismo islamico serpeggia per Spitalfields, è legittimo chiedersi come mai in quarant’anni di passeggiate psicogeografiche nei dintorni della loro leggendaria casa-studio, in quella stessa Spitalfields che da sempre accoglie gli emarginati (prima i perseguitati ugonotti, poi gli ebrei, gli islamici, infine loro stessi in quanto artisti) non abbiano sentito l’esigenza di mappare la gentrification, un fenomeno che nella zona è evidente quanto, se non più, dell’influsso migratorio. In questa Brick Lane investita da speculazioni edilizie che hanno fatto schizzare i prezzi sulla scia della comunità di artisti di cui loro stessi furono avamposto (seguirono dappresso Tracey Emin e lo stesso Joplin, con la prima, seminale White Cube) oggi non dilagano soltanto i volantini fondamentalisti ossessivamente collezionati da G&G, ma sciami di hipster sfacciatamente immuni alla barbitonsura, dai baffi a manubrio impomatati, la cui lotta spesso non va oltre il restituire dignità estetica alla patina seppia delle cartoline Alinari.
Un’altra invasione, stavolta invocata, di ricchi riconciliati con la propria ricchezza e laboriosamente affaccendati nella costruzione della grande cattedrale sociale dell’individualismo contemporaneo. Tutte operazioni che sia Gilbert, sia George evidentemente amano profondamente.
Ecco perché le Scapegoating Pictures for London lasciano una scia chimica di perplessità. Gustata fredda la vendetta contro l’arte politicizzata che li aveva snobbati ai loro esordi, ottenuto il blasone del riconoscimento ufficiale, diventava obbligatorio scagliarsi contro qualcos’altro. Ma ora che l’eredità del thatcherismo imperante informa di sé ogni atomo dell’essere sociale europeo contemporaneo, ora che l’arte militante degli anni Settanta è oggetto di decostruzione quando non di dileggio, e che il coefficiente emancipatore dell’estetica è chiuso dentro un arsenale dimenticato, ora, infine, che il mondo sembra andare esattamente dove G&G avevano sempre voluto andasse, è chiaro che diventa sempre difficile posare da outsider. E lo sforzo di questa posa, pur brillante, si vede.