Siamo abituati a idolatrare eroi senza macchia e senza paura, visionari che hanno pagato spesso con la vita il perseguimento di un ideale. Da Che Guevara a Martin Luther King, da Nelson Mandela a Ghandi. Oppure riferimenti di minore spessore etico e morale, quelli «caduti» per ciò che continua ad appassionare milioni di persone in ogni parte del mondo, la musica rock. Quei musicisti bruciati nel fiore degli anni dagli eccessi e dalla voglia di vivere tutto e subito. In questo caso la lista è lunga e dolorosa, da Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin e Jim Morrison fino a Kurt Cobain e Amy Winehouse.

C’è poi una categoria recente costituita dai peccatori redenti, coloro che nella loro vita ne hanno combinate di tutti i colori ma sono sopravvissuti e hanno ora la possibilità di raccontarlo (spesso in autobiografie lautamente pagate). Gente come Keith Richards, Iggy Pop, Ozzy Osbourne, che affronta la vecchiaia un po’ claudicante e stonata ma che in qualche modo rimane testimone di un’epoca e conserva la nostra ammirazione, non solo artistica.
Poi c’è invece uno come Gil Scott-Heron, artista, musicista, cantante, poeta, intellettuale, intrattenitore, compositore di smisurato talento, persosi nei meandri della dipendenza da cocaina e crack, finito spesso in galera, altre volte rinchiusosi in un lungo oblìo nel vano tentativo di sfuggire ai fantasmi che lo hanno così a lungo tormentato.
Non c’è nulla di eroico nel suo sprofondare in un inferno senza fine, tra musicisti non pagati, amici rinnegati, concerti sconclusionati (con l’unico fine di raggranellare qualche soldo per pagare vizi e stravizi), interminabili silenzi discografici. Ma l’eredità artistica che ha lasciato, la vita incredibile che ha vissuto ne fa uno dei personaggi più significativi della black music ma non solo, uno dei pochi a riuscire ad avvicinarsi al concetto di «musica totale», quella in cui è riuscito a fare confluire blues, gospel, soul, funk, jazz, rock, pop, latino, reggae, creando un mix incredibilmente creativo, su cui poi declamava fiumi di parole o stupende melodie. Con testi che hanno precorso tematiche diventate comuni nella musica solo parecchi anni dopo.

PRIMI GIORNI
L’atipicità del personaggio risale, inconsapevolmente, già ai suoi primi giorni di vita quando il padre Gilles Heron lo abbandona, lascia gli Stati Uniti per andare a lavorare in Scozia. Nulla di strano, capita spesso purtroppo, se non che l’Heron padre in quei giorni, alla fine degli anni Quaranta, faceva un lavoro particolare (soprattutto per gli schemi Usa): il calciatore. Lo faceva parecchio bene, segnava un sacco di gol e aveva talento. Ma con un piccolo difetto per i gusti dell’America democratica dei tempi: era nero. Il primo calciatore nero ammesso a giocare in una squadra di bianchi. Dove però non veniva quasi mai menzionato nelle cronache sportive, scompariva dalle foto, soprattutto veniva pagato meno dei compagni. Viene scoperto dal Celtic di Glasgow, squadra blasonata e certamente più ricca dei suoi Detroit Wolverines. Se ne va (rivedrà il figlio solo un quarto di secolo dopo), lasciando la moglie in estrema difficoltà, tanto da costringerla ad affidare Gil alla nonna Lyly Scott. Un altro personaggio molto particolare. Che innanzitutto gli compra un pianoforte e lo indirizza alla musica e poi gli fa conoscere in adolescenza gli scritti di poeti e attivisti per i diritti dei neri come Langston Hughes (uno dei principali ispiratori, in futuro, delle liriche di Gil). E che soprattutto è una signora sempre pronta a piantar grane di ogni tipo nella razzista Jackson, Tennessee, ogni volta che qualche bianco pensa di poter esercitare qualche privilegio solo per il colore della pelle. Alla morte della nonna Gil si ricongiunge con la madre a New York nel quartiere di Lower Chelsea, chiamata allora Little San Juan dove «c’erano l’85% di portoricani, il 15% di bianchi e io», ricorda lo stesso Gil.
La sua passione per la scrittura lo fa eccellere a scuola dove viene notato e invitato dal preside a dedicarsi alla stesura di un romanzo. Ne scrive due, The Vulture e La fabbrica dei negri, ironici ma pungenti, scorrevoli, cattivi e incisivi. Ma il richiamo per la musica è altrettanto forte e, affiancato dal pianista Brian Jackson, si dedica anche alla composizione di brani. Molto particolari all’inizio. Basi percussive e ipnotiche su cui racconta storie, parlando, declamando. È l’inizio di quello che conosceremo poi come rap. In particolare il brano The Revolution Will not Be Televised (la rivoluzione non sarà trasmessa in tv ovverosia nessuno verrà a dirvi che è iniziata e che se volete potete partecipare. La rivoluzione parte dai noi stessi) diventa un inno indimenticato del genere. «Noi parlavamo del fatto che non c’è nulla di pronto per te, nulla che ti possa aiutare. Devi essere tu a uscire e fare le cose. La rivoluzione nasce nella tua mente. Noi eravamo quelli con le bibbie e le bandiere e ci chiamavano militanti, ma le armi ce le avevano quegli altri».
Gli album si susseguono durante gli anni Settanta, la popolarità aumenta. I testi sono lucidi, spietati, descrivono alla perfezione la situazione nei ghetti neri, parlano di alcolismo e droga (senza mai esaltarli o condannarli, semplicemente narrando la situazione, il disagio, l’origine di questi mali tra i giovani neri), di nucleare (anni e anni prima che il problema venisse affrontato in ambito musicale), di immigrazione (quella degli ispanici che morivano cercando di entrare clandestinamente negli Stati Uniti), di ambientalismo, di razzismo.
I concerti sono sempre più frequenti, i dischi migliorano di volta in volta, con il brano The Bottle trova anche il successo da classifica. Anche se vi descrive le file di alcolisti in attesa davanti ai negozi di liquori: «Nacque sedendoci a fianco di chi faceva la fila davanti ai negozi che vendono alcol per comprare la bottiglia quotidiana. Parlammo a lungo con loro ascoltando storie di disperazione e decadenza. E tutto ciò finì nella canzone». Lo chiamano il Bob Dylan nero per la sua capacità di descrivere alla perfezione la società (nera e non solo) Usa del tempo. Infila una serie di piccoli capolavori uno dietro l’altro.
Pieces of a Man del 1971 è il secondo album, un lavoro superbo in cui soul e jazz si mischiano alla perfezione accompagnandosi a sguardi profondi e lucidi sulla situazione dei ghetti neri americani, e segue l’esordio dell’anno precedente Small Talk at 125th and Lenox basato prevalentemente su basi percussive con parlati di Gil con qualche melodia solo accennata, uno dei primi esempi di quello che conosceremo come rap.
Winter in America del 1974 è un progetto ambizioso che cerca e riesce perfettamente a catturare il mood sociale e musicale di quei giorni, mischiando liriche mature, profonde, accurate, con un sound che, partendo dal jazz, assorbe blues, funk, soul, umori esplicitamente «africani» guardando però avanti e creando uno stile personalissimo e riconoscibile. I successivi lavori alimentano la sua fama, la raffinatezza del sound, sempre più personale e convincente, mentre i testi diventano sempre più la peculiarità che ne contraddistinguono la carriera.

SOLO NOI 
«La comunità Nera era “I”-oriented (concentrata su sé stessa, ndr), noi non eravamo parte di ciò che stava succedendo nel Terzo Mondo, perché fondamentalmente parlavamo sempre di noi stessi».
La sua visione su quanto accade negli States negli anni Settanta è come sempre lucida ma terribilmente amara: «Non c’era un’America nera quando è nato questo paese. I neri sono stati coinvolti ancor prima che fosse un paese, ma per quanto riguarda le opportunità di poter avere qualche vantaggio da ciò, tutto è iniziato solo negli ultimi trenta o quarant’anni. Noi neri siamo stati gli unici e veri americani. Gli unici che hanno portato avanti il processo attraverso il processo. Siamo quelli che hanno marciato, che hanno portato la Bibbia, che hanno portato la bandiera, che hanno cercato di passare attraverso i tribunali. Ma essere nato americano non sembra avere importanza. Perché noi siamo nati americani e continuiamo a combattere per ciò che stiamo continuando a cercare».
Ma il disastro è dietro l’angolo. Incredibilmente un personaggio così lucido, attento, colto rimane invischiato sempre più nella droga. Rompe con il compagno musicale di sempre, Brian Jackson, e incomincia un progressivo declino dove sono cocaina e crack ad avere il privilegio rispetto a musica e carriera artistica. Anche se le opportunità non mancano, ormai è un artista affermato, vende bene, suona spesso.
Nel 1980 supporta il tour di Stevie Wonder Hotter than July (dove sostituì all’ultimo momento Bob Marley ormai gravemente malato), potendo esibirsi di fronte a platee ben più vaste rispetto al solito.
L’occasione non gli darà il successo sperato ma lo consoliderà comunque tra gli artisti black di maggior rispetto e spessore. Stevie Wonder si mostrerà molto preoccupato per lo stato di salute di Gil e arrivò ad offrirgli 25mila dollari per permettergli di ricoverarsi in una clinica di alto livello alle Bahamas per disintossicarsi. Gil rifiutò sdegnato, ferendo profondamente Stevie. Da quel momento i due si allontaneranno e la frattura non si ricucirà più. Prosegue comunque anche l’attività discografica. Album come Real Eyes, Reflections, Moving Target, Spirits, conservano ancora tracce del talento che conoscevamo ma risentono talvolta di approssimazione e una certa stanchezza. Dal 1994 scompare dalla discografia e bisognerà attendere sedici anni prima di ritrovarlo in sala d’incisione.
Si sono fatte molte congetture sul perché sia rimasto prigioniero di un demone che tanto spesso aveva descritto e contro cui aveva messo in guardia i giovani delle comunità nere. C’è chi dice che sia stata sempre una persona caratterialmente debole, chi ha sostenuto che abbia voluto sperimentare la droga per capirne bene gli effetti per poterne parlare meglio nelle sue canzoni. D’altronde il suo manager lo scovò una volta nella metropolitana di New York a chiedere l’elemosina e alla richiesta di spiegazioni rispose che se voleva scrivere una canzone su un senzatetto doveva capire come viveva in prima persona! L’incessante vita in tour (era solito suonare, pratica comune per gli artisti soul e rhythm and blues, vedi James Brown o Ray Charles, centinaia di concerti ogni anno) non gli ha certamente risparmiato tentazioni e promiscuità, anche in un ambito di tossicodipendenti.
Lo scrittore Marcus Baram, autore della stupenda biografia Gil Scott-Heron: Pieces of a Man ipotizza che abbia incominciato con la droga per lenire una serie di dolori fisici che lo hanno sempre martoriato, dalla schiena ai denti e che ne sia rimasto inevitabilmente schiavo. Tutte concause legittime che però convergono con quella che è una deriva che colpì molti degli idealisti visionari, alla ricerca di una speranza di cambiamento a favore di una società più giusta, equa e paritaria, che lottarono duramente per quello e credettero fino in fondo che un mondo migliore era possibile. La disillusione di fronte alla sconfitta, a un mondo che non solo non cambiava ma che anzi peggiorava, può aver inferto il colpo finale. E non solo a Gil, come è tristemente noto.

UN GRANDE POSTER
Sopravvive a stento, vive a Harlem in un appartamento squallido, scrivendo ogni tanto con una vecchia macchina, un grande poster di Muhammad Ali su una parete, Kind of Blue di Miles Davis costantemente sullo stereo, alternando sporadiche uscite discografiche a vari concerti non sempre riusciti. Significativa in tal senso la vicenda di una serie di album live, con titoli diversi e per etichette differenti, che riportano sostanzialmente gli stessi brani registrati nello stesso concerto, talvolta senza l’introduzione parlata, altre volte sfumati, altre ancora con meno canzoni. Il sospetto che Gil o chi per lui abbia venduto a diverse case discografiche lo stesso master è abbastanza lecito.
Disse di lui la sua ultima compagna, Monique: «C’è una persona davvero gentile dentro Gil ma è veramente lontana. È il ragazzino che viveva con la nonna a Jacksonville. Mi diceva sempre, ’Avrei voluto che tu mi conoscessi prima che diventassi così’».
Finisce più volte in carcere per spaccio e conseguentemente nel dimenticatoio. Da cui verrà faticosamente tirato fuori dal produttore Richard Russell che, con l’aiuto di Damon Albarn dei Blur, riuscirà a fargli incidere l’ultimo album I’m New Here nel 2010, breve capolavoro e stupendo lavoro di blues moderno, difficile, duro e crudo, ma di un fascino assolutamente unico. Vende discretamente e riporta il nome di Gil nelle chart (seppure nelle retrovie) oltre a raccogliere il plauso unanime della critica e rimetterlo on the road per una lunghissima serie di date. Che lo colgono sofferente, consumato dagli abusi e dalla vita ma terribilmente efficace e affascinante.
Il critico Robert Ferguson ha brillantemente sottolineato come questo album sia per Gil «una confessione, ma senza alcuna scusa, per raccogliere le ossa della sua vita, riconoscendo i tempi duri e i propri errori, ma ancora in piedi, fiero di tutto quello che lo ha portato a diventare quello che è». Ricorda Russell dell’esperienza in studio a fianco di Gil: «Beh, devi accettare il fatto che Gil non opera su nessun tipo di orologio che l’uomo conosca. Può stare in giro fino a tardi, può non alzarsi per alcuni giorni, ma quando lo fa, diventa incredibile. È un vero artista in un modo in cui gli esecutori non sono più. Non ha concezione del tempo e nessun riguardo per il denaro. Sembra completamente libero dai pesi della normale vita quotidiana. Anche per questo è stata un’esperienza straordinaria e unica».
Gil Scott-Heron scompare il 27 maggio 2011 per cause mai accertate ma probabilmente solo per una sommatoria di mille malanni a seguito di una vita di eccessi.

FUORI I DISCHI
Di difficile ascolto ma album molto significativo, l’esordio del 1970 Small Talk at 125th and Lenox, con un approccio minimale, grezzo e ruvido, con testi recitati su basi di percussioni e un occasionale pianoforte. Uno dei dischi seminali e fondamentali per capire, identificare e definire le radici del rap (insieme ai suoi contemporanei Last Poets). Un vero gioiello è invece Pieces of a Man dell’anno successivo, tra soul e jazz. Nel 1974 Winter in America diventa l’album più maturo, completo, curato e di qualità. Un capolavoro. Seguono episodi di grande classe e spessore ma bisognerà attendere I’m New Here, il canto del cigno nel 2010 per rimanere di nuovo a bocca aperta.
Per chi volesse avvicinarsi al musicista, per approfondire solo in seguito la sua conoscenza, sono numerose le raccolte con i migliori episodi della lunga carriera. Da segnalare, all’interno di una attività letteraria discretamente prolifica, il secondo romanzo La fabbrica dei negri e il conclusivo L’ultima vacanza tradotto in Italia nel 2012.

*Antonio Bacciocchi, scrittore, musicista (anche noto come Tony Face) e blogger, ha pubblicato di recente «Gil Scott-Heron, il Bob Dylan nero» (Vololibero ed., pp. 137, euro 16,50)