Dopo Il visitatore della sera (2019), contenente il carteggio di Proust con Paul Morand e Madame Soutzo, Massimo Carloni cura in maniera altrettanto egregia, sempre per Aragno, il monumentale Il profumo imperituro del tempo Lettere e scritti 1893-1921 (pp. 816, € 40,00). In questo lavoro figurano le missive che Marcel Proust e Robert de Montesquiou si scambiarono durante il loro controverso rapporto di amicizia, fatto di reticenze e confidenze, giravolte affettive e malcelati rancori. È noto che la figura di Montesquiou rivestì una particolare importanza per l’autore della Recherche, costituendo una sorta di inarrivabile prototipo di eleganza e ricercatezza, infarcito a tratti di una punta di cinismo. A proposito del famoso ritratto che Boldini gli dedicò, riprodotto nel controfrontespizio, Jean Lorrain scrisse emblematicamente che Montesquiou sembrava «ipnotizzato dal suo bastone da passeggio».Lo snobismo che caratterizzò sia il contegno sia la scrittura di Montesquiou affascinò parecchi intellettuali del tempo, da D’Annunzio a Huysmans, che ne fece il modello di Jean Des Esseintes, l’affettato protagonista di À rebours, considerato il vangelo del decadentismo.
Montesquiou divenne così, insieme a Jacques Doasan, uno dei principali ispiratori del Barone de Charlus, particolare che suscitò le ire dell’interessato, attento a nascondere ogni riferimento alla propria omosessualità. In una lettera inviata a Jean de Boulanger, qui opportunamente tradotta, Proust osserva, con l’ambigua strategia che contraddistingue il suo operato: «Ho ripreso a scrivergli delle lettere tanto più gentili in quanto hanno avuto l’assurdità di dire che l’avevo ritratto nei panni di Charlus. Il che sarebbe tanto più ignobile perché, se è vero che ho incontrato in società tantissimi invertiti insospettabili, da parecchi anni che conosco Montesquiou non l’ho mai visto né a casa sua, né tra la gente, né altrove tradire il minimo segno di esserlo».
Proust si rende conto di avere a che fare con «un uomo malevolo», eccessivo, geloso del successo ottenuto da quel suo discepolo ipocondriaco, più giovane di tre lustri, che tendeva a fargli il verso attraverso l’elaborazione di pastiches che non si possono considerare memorabili (vedi Les Plaisirs et les jours, del 1896) e che solo con la stesura di Du coté de chez Swann (1913) e À l’ombre des jeunes filles en fleur (’19) opera un significativo scarto, divenendo autore di culto che approda, dopo varie vicissitudini, alla NRF e al conferimento del Goncourt. Lo stesso Montesquiou, definito «professore di bellezza» in considerazione del sostegno attribuito all’opera pittorica di Moreau, Whistler ed Helleu, in una lettera del gennaio 1914 non potrà esimersi dall’asserire, a proposito del tassello inaugurale della Recherche, che «il vostro romanzo somiglia a quei cespugli di biancospino che tanto amate, con una profusione di idee e di parole così pullulanti quanto i petali punteggiati di cui vi inebriava l’odore, insieme voluttuoso e pio».
Tra appuntamenti sempre rimandati e scambi di opinioni su questioni oltremodo frivole, come la querelle sorta intorno all’invio di un mazzo di ortensie prima della pubblicazione di Hortensias bleues, il carteggio tra i due scrittori toccherà i più svariati argomenti, cadenzandosi intorno ad alcuni eventi capitali come la scomparsa prematura di Gabriel de Yturri, segretario e compagno di Montesquiou che, nella trasfigurazione romanzesca, dona le proprie fattezze alla moglie morta di Charlus, «l’essere più bello, più nobile, più perfetto che si potesse sognare». Ma il tema monocorde, opprimente, deprimente, riguarda la malattia di Proust («tracciare una sola parola mi sarebbe stato materialmente impossibile») che compare in ogni lettera come un meccanismo di difesa o pretesto teso a evitare gli incontri – matinées, cene o ritrovi mondani – in cui sarebbe richiesta la sua presenza.
È una geremiade che si sviluppa durante tutto l’arco del carteggio, con effetti che a tratti indispettiscono lo stesso interlocutore e che non possono non far pensare a quanto asserito nella Recherche: «Vi sono dei malanni da cui non bisogna cercare di guarire, perché sono gli unici a proteggerci dai più gravi». La «capillare, maniacale strategia di orari, coincidenze e dilazioni», già rilevata da un traduttore d’eccezione come Raboni a proposito della lettera del 16 maggio 1905, non può che corrispondere a un metodo che sarebbe proficuo investigare in chiave psicoanalitica. Com’è tipico della corrispondenza di Proust – potenziale fucina del suo opus magnum –, solo a tratti appaiono passaggi particolarmente coinvolgenti, in virtù della sbrigatività con cui vengono affrontati determinati argomenti nonché della funzionalità sottesa alle richieste di chiarimento: la tonalità pervinca di uno sguardo, le violette che spuntano caparbiamente da un’acconciatura, descrizioni che andranno a delineare l’architettura del capolavoro – ma in ben altra forma, levigata come un sasso dalla corrente fluviale –, alla stregua della chiesa di Combray che risente di reminiscenze di stili variegati.
Con i dovuti distinguo, il valore documentario, talora adulterato da un autore che fece dell’anti-saintebeuvismo il suo cavallo di battaglia, detronizza a più riprese quello letterario. D’altronde bisogna considerare che la Correspondance di Proust, curata da Philip Kolb per Plon tra il 1970 e il 1993, annovera ben ventuno volumi, ai quali bisogna aggiungere le Lettres à Robert de Montesquiou, edite sempre per Plon nel 1930, a cura di Robert Proust e Paul Brac; tali testi sono serviti per allestire la traduzione italiana integrale del carteggio.
Montesquiou si riconosceva in questo frammento ricavato da una lettera proustiana, tanto da riportarlo nelle sue memorie, di cui viene offerto in calce al volume un breve estratto: «Voi v’innalzate sull’incomprensione come il gabbiano sulla tempesta e non vorreste esser privato di questa pressione ascendente». Il tono lambiccato del giovane Proust, che si inchina di fronte al maestro come «una giovane spiga riconoscente» e che in una dedica manierata rintraccia «l’accoglienza dei serafini e dei cherubini» (ma altrettanto feroci erano le imitazioni che faceva in pubblico del suo mentore), cede via via il passo a una scrittura più essenziale, vibratile, quasi stenografica, che mantiene tuttavia le caratteristiche di un linguaggio iniziatico, non di rado criptico. Si veda la lettera del 9 marzo 1910 che in alcuni passaggi risulta pressoché incomprensibile, disseminata com’è di richiami alle sfumature presenti nei testi e nelle abitudini snobistiche di Montesquiou: «il quindici-sedici prugna di Monsieur», «il pianista che parla di Chopin come un pescivendolo». Altrove sono i riferimenti al Faubourg Saint-Germain, con l’ideale offerta di una cornucopia di simboli araldici, a mortificare un dettato che indulge non di rado al mélange, al pastiche, senza avere la plausibilità dell’improvvisazione, della sprezzatura.
I messaggi di Montesquiou si limitano alla mera constatazione, sempre cadenzata su un’intonazione di falsetto, mai naturale, se non nelle espressioni in cui si abbandona alla macerazione, alla lacerazione di una memoria dai tratti elegantemente statici: «Ma il vostro ricordo permane in me, come un mazzo di fiori prigioniero nei ghiacci, che gli impediscono di appassire, fino al giorno in cui si scioglieranno». Un’eco di tale asserzione si riverbera in una lettera più tarda, che suona come un aut aut: «Tra di noi, oramai, si erge un muro di ghiaccio. Esso contiene, trattiene, mantiene dei fiori colorati e freschi; li guardiamo, ma non li cogliamo». Le metafore floreali abbondano in tutto il libro, tanto che alla fine il lettore, come Proust in preda all’allergia al polline, è travolto e quasi nauseato da questa scia di profumi (Le Chef des odeurs suaves è il titolo di una raccolta di versi di Montesquiou) proveniente da mughetti, gigli, «rose piene di rugiada» (Villers de l’Isle-Adam citato in una lettera in cui sembra stagliarsi l’atelier di Madeleine Lemaire), che si contrappone al volo zigzagante delle Chauves-souris o ai colori rutilanti dei Paons, come si intitolano due sillogi poetiche di Montesquiou.
Le lettere finali, irretite come sono entro i lacciuoli delle reciproche infermità (gli autori moriranno a poco meno di un anno di distanza), sconfinano nel patetismo. Élisabeth de Clermont-Tonnerre riporta la boutade che Montesquiou aveva l’abitudine di proferire negli ultimi anni: «Vorrei anch’io un po’ di gloria. Basterebbe che mi chiamassi Montesproust».