A 150 anni dalla nascita di André Gide viene riproposto da Bompiani I sotterranei del Vaticano («Classici contemporanei», pp. 240, € 13,00), con ottima cura di Piero Gelli, a cui si devono i precedenti recuperi del Diario, I falsari e Se il grano non muore. Il romanzo, uscito in forma anonima a puntate nella «N.R.F.» e poi in volume da Gallimard nel 1914, è stato tradotto varie volte in italiano, a cominciare dall’edizione allestita nella «Medusa» mondadoriana nel ’43. È considerato uno dei capolavori di Gide che parlò a tal proposito di sotie, termine derivante da sot che, in antico francese, designava il pazzo, il buffone.
È sintomatico che la definizione venga adoperata solo in occasione di questo libro mentre per le successive prove Gide farà riferimento a récit, trattato ecc., ricorrendo alla designazione di romanzo solo per I falsari (1925). E, in effetti, la vicenda narrata assume a più riprese il tono della farsa, soprattutto laddove si descrive il viaggio compiuto in Italia da Fleurissoire nel patetico tentativo di salvare Leone XIII, di cui si è diffusa ad arte la notizia del sequestro da parte della massoneria e della sostituzione sullo scranno papale con un sosia. Si tratta in realtà di un sotterfugio, abilmente architettato da un pugno di malfattori (tra cui il trasformista Protos), realizzato al fine di spillare quattrini ai creduloni.
Questo moderno vaudeville si configura come un romanzo a incastri, in cui molto presente è il tentativo di caratterizzare i personaggi in chiave psicologica: si pensi allo scienziato anticlericale Anthime Armand-Dubois che guarisce improvvisamente da una forma di claudicazione dopo aver sognato la Madonna; soprattutto a Lafcadio Wluiki, unico personaggio definito di fantasia ma presumibilmente ispirato ad Arthur Cravan, lo scrittore boxeur, attratto dalla «meravigliosa vita del fallito», che frequentò Gide all’inizio del secolo. Lafcadio diventa il vessillifero dell’atto gratuito che sfida le rigide convenzioni dell’epoca, compiendo un assassinio barbaro quanto inutile nei confronti del bonario Fleurissoire. Tale atto gratuito, ispirato da Nietzsche nonché dal Raskolnikov dostoevskjiano, si rivela quanto mai attuale e, al contempo, strappa un sorriso in virtù della sua dinamica anacronistica. In Gide spesso convivono tali aspetti contradditòri che rivelano, sulla falsariga di Goethe, la sua dimensione proteiforme, tesa a impadronirsi della psicologia di ogni personaggio, non importa se vittima o carnefice, portando alle estreme conseguenze la celebre asserzione di Rimbaud «Je est un autre». D’altro canto non si può dimenticare il retaggio simbolista dell’autore e il sodalizio con Valéry, Louÿs, Régnier, nonché la frequentazione dei mardis mallarmeani.
Il romanzo si impone come il tentativo di fissare un campionario di varia umanità attraverso il microscopio di un’esposizione fredda, composta, misurata, che si limita a registrare gli eventi sottesi al plot narrativo senza mai debordare in digressioni che non siano funzionali al progetto compositivo. Si è parlato a più riprese di classicismo, anche se probabilmente tale definizione si basa sul modus scribendi gidiano, sull’asciuttezza di uno stile che sembra richiamare i tratti affilatissimi, quasi ascetici, del volto del narratore.
I personaggi descritti incarnano varie tipologie di pensiero e diventa naturale rifarsi al variegato trasporto di Gide nei confronti di alcune esperienze campali del Novecento: il credo comunista (poi polemicamente rinnegato), l’ostentato ateismo, l’omosessualità dissezionata in Corydon, la lotta allo schiavismo e al colonialismo dei viaggi in Congo e nel Ciad. Vera e propria cartina di tornasole di un’epoca, l’opera di Gide costituisce un punto di riferimento essenziale per chi si sia misurato con le derive di certo ideologismo: da Sartre a Camus.
Tale scrittura, definita da Gelli «limpida e ambiguamente allusiva», non poteva non essere avversata dall’ipercattolico Claudel, che invitò Gide a sopprimere l’epigrafe in esergo al terzo capitolo, tratta da L’Annonce faite à Marie, a causa dei velati riferimenti all’omosessualità. Claudel proclamerà a spada tratta: «Gide è un avvelenatore». Ed è singolare il fatto che, a differenza di tutti gli altri capitoli in cui figura un’epigrafe (Palante, Pascal, Boccaccio, Conrad), in quel punto l’autore abbia omesso di rimpiazzarla, quasi a evidenziare una frattura dovuta a concezioni etiche agli antipodi.
Il libro può essere considerato un divertissement dagli esiti crudeli e ambigui, che alterna tragedia e farsa (si veda l’episodio dell’incontro napoletano tra Fleurissoire e i due falsi prelati che gozzovigliano, attorniati da adolescenti compiacenti, in un continuo mascheramento della propria identità che sembra una prefigurazione della Pelle malapartiana), degeneranti in quel finale avvitato intorno al dubbio e all’irresolutezza dei protagonisti. I quali, al di là dei proclami e della sicumera esibita, si dimostrano incapaci di vivere, schiacciati dal peso di un libero arbitrio che, adoperato maldestramente, non li redime affatto, relegandoli a diventare eliotiani «uomini vuoti», gli incorreggibili antesignani dell’esistenzialismo.