Per risolvere le tensioni tra Gran Bretagna e Spagna, «il primo passo lo devono fare gli inglesi». Fa la voce grossa il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel García-Margallo dalle colonne del Wall street Journal in un articolo intitolato senza tanti giri di parole «dobbiamo parlare di Gibilterra». E in effetti, di cose da dire, il ministro ne ha: innanzitutto fa sapere a Londra che la ripresa del dialogo deve passare attraverso la riparazione del casus belli. Gli inglesi – scrive García-Margallo – devono provvedere alla «necessaria» rimozione dei 70 blocchi di cemento gettati in mare, che stanno all’origine dell’incidente diplomatico tra Londra e Madrid. I blocchi sono stati gettati presso l’istmo che unisce Gibilterra alla Spagna, ovvero, secondo il ministro, in acque territoriali spagnole, dato che il lembo di terra in questione non farebbe parte del territorio ceduto ai britannici nel 1713 con il trattato di Utrecht. Inoltre i cubi che giacciono nelle profondità delle acque contese causerebbero danni all’ambiente marino e ostacolerebbero i pescherecci andalusi che in quel tratto di mare – fa sapere il ministro spagnolo – svolgono il 25% della loro attività di pesca.
Poi – in attesa che i britannici tolgano i blocchi dal fondale marino – il ministro spagnolo si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Tra i più fastidiosi c’è il contrabbando, un’attività che sfrutta i vantaggi del blando regime fiscale dell’enclave britannica. Le attività illegali riguarderebbero soprattutto l’introduzione in territorio spagnolo di tabacco, in preoccupante crescita negli ultimi anni stando ai dati citati dal ministro. Questo traffico giustificherebbe le intensificazioni dei controlli doganali, che nei giorni scorsi hanno provocato ore di coda (fino a 7) alla frontiera e hanno suscitato le proteste di Londra e delle autorità di Gibilterra. La situazione è ora migliorata (anche se ieri c’è stata una recrudescenza, con attese di 2 ore) ma le ispezioni – sia pure legittime, essendo l’enclave fuori dall’area Schengen – proseguono. E per quanto «aleatoria, proporzionata e non discriminatoria», la stretta doganale contribuisce a mantenere alta la tensione tra i due paesi. Così come, d’altra parte, la proposta (già dichiarata illegale dalla Ue) di far pagar un pedaggio all’ingresso in territorio spagnolo. Non esattamente un pedaggio – precisa Madrid – quanto piuttosto una tassa ambientale sul traffico, «sul modello – per citare un esempio a caso – della capitale inglese».
Nell’articolo c’è spazio anche per un altro tema caldo, quello dell’evasione fiscale e del riciclaggio: nell’enclave – fa notare ancora il ministro – a fronte di una popolazione di 30.000 abitanti, sono registrate 21.0000 imprese. Molte di queste sono spagnole, ma le (poche) tasse le pagano a Londra. Stesso problema con 6.700 abitanti di Gibilterra, con residenza fiscale nell’enclave ma domicilio al di là della frontiera. E poi c’è la questione delle compagnie offshore che Gibilterra «favorisce grazie al suo regime di tassazione». «In breve – taglia corto García-Margallo – il modello di basso regime fiscale è una facciata che favorisce chi cerca di evadere le tasse». Tutte questioni che – dopo il colloquio dell’altro ieri tra Rajoy e Barroso – la Ue ha promesso di approfondire, mandando a Gibilterra una delegazione tecnica. La contesa sui blocchi di cemento sarà invece esaminata dalla Commissione ambientale.
García-Margallo ha poi ricordato l’amicizia tra i due paesi sottolineando che la Spagna è pronta a riprendere il dialogo purché esso sia «bilaterale e rispettoso delle leggi nazionali, internazionali ed europee».
Non risparmia, però, una caustica allusione all’antieuropeismo inglese: «Al contrario del governo britannico – scrive il ministro – quello spagnolo si sente a suo agio nel contesto delle istituzioni internazionali, ha fiducia in esse ed è sempre disposto a compiere i suoi mandati». Il riferimento è ovviamente alla Ue, ma anche all’Onu che si è espresso in varie risoluzioni degli anni sessanta a favore delle continuità territoriale spagnola e contro il diritto all’autodeterminazione degli abitanti dell’enclave. Ma per il governo britannico «la questione sulla sovranità è chiara» mentre quello di cui Londra è unicamente disposta a parlare sono le pratiche di pesca e non la sovranità sulle acque, ha risposto un portavoce del primo ministro David Cameron.