Una crisi pandemica, come tutte le crisi gravi, induce a ripensamenti o perlomeno a dubbi. I nostri assunti diventano meno monolitici, si tende a problematizzare, si mettono a verifica le vecchie convinzioni. Leggendo il professor Francesco Giavazzi sulle pagine del «Corriere della Sera» di lunedì scorso sembra che il dubbio non alberghi in chi sostiene una indefessa adesione alla superiorità del privato all’interno del libero mercato. Quest’ultimo appare un moloch intoccabile, dalle virtù indiscutibili.

Altro che fine delle ideologie! Giavazzi, intervenendo a proposito dell’utilizzo del Recovery Found, limita il ruolo dello Stato a un’attività regolatrice, che individui le priorità del programma senza però giocare un ruolo da protagonista. Per avvalorare la sua tesi Giavazzi elenca alcune «ombre» dello Stato, come ad esempio i medici e gli infermieri della sanità pubblica, costretti ad operare «in un sistema che in alcune regioni ha perso il rapporto con il territorio». Meno ancora «hanno funzionato la distribuzione del materiale sanitario, l’organizzazione dei tamponi, il piano per il vaccino anti-influenza e ora quello per il Covid-19».

Una critica fondata (seppur precipitosa sul vaccino anti-Covid), ma che rimuove quel processo di ripiegamento nella sanità pubblica in corso da tempo nel nostro paese che, a partire dal «modello Lombardia», ha significato «integrazione» pubblico-privato, proprio per inseguire i dettami di un’economia libera e competitiva. Non solo, rimuove il dato del MEF che afferma che la spesa sanitaria in rapporto al Pil è passata dal 7,1% del 2008 al 6,5% nel 2018, proprio per seguire i dettami dell’austerity. Ciò ha contribuito al risultato di 44 mila sanitari a tempo indeterminato in meno, più personale precario o esternalizzato (e meno pagato), un’età superiore a 55 anni per 6 medici su 10. Numeri che da soli spiegano molte difficoltà emerse nella pandemia, a partire dai tagli alla medicina territoriale.

Niente vien detto sulla ritirata dello Stato da questo settore a tutto vantaggio di una sfera privata che non è certo stata in grado di fronteggiare l’emergenza. E che dire degli Stati Uniti, che dal 1992 spendono in proporzione più dell’Italia pur non avendo un sistema sanitario a trazione pubblica? Perché la loro sanità privata, non universale, è così costosa per le casse pubbliche? Ma le preoccupazioni di Giavazzi proseguono nell’elencare i rischi di concentrazioni d’impresa statali dal carattere meramente estrattivo, in cui le imprese pubbliche tenderebbero a perseguire rendite di posizione ostacolando di fatto l’innovazione. Ma dopo gli ultimi decenni di primato del mercato perché non provare a fare anche un bilancio di cosa è stata l’impresa privata? Ha dato vita a fenomeni di concentrazione? Dal macroscopico caso dell’higth-tec fino all’industria automobilistica, passando per la grande distribuzione, si sono create nuove rendite di posizione.

L’impresa italiana in questi anni, dopo le privatizzazione degli anni Novanta, è stata capace di innovare prodotti e processi? No, ha cercato prevalentemente rendita finanziaria e produttiva, ha dismesso settori strategici non in grado di affrontare le pressioni globali, ha innovato in comparti incapaci di risollevare l’intera economia. La produttività stagnante da alcuni decenni ne rappresenta il limite più evidente. Tutta colpa del pubblico? O forse della sua scomparsa? Giavazzi, infine, solleva il rischio del ruolo nefasto della longa manus della politica, quella che si impossesò dell’Iri. In effetti le risorse che arriveranno rischiano di riproporre meccanismi fondati su corruzione, clientelismo e di corto respiro. Questo è il problema: come rifondare una sfera pubblica all’altezza dei tempi e delle difficoltà esistenti.

Riproporre lo Stato minimo regolatore e l’impresa privata come unico attore economico, ci pare il frutto di una grande rimozione non tanto del passato, quanto del drammatico presente.