Nell’oriente di Cina e Giappone i giardini sono tra le maggiori evidenze plastiche della relazione costitutiva che queste culture intrattengono con la natura. Intesa qui, in una rispettosa, intima consuetudine, come insieme armonioso di cui si è parte. In consonanza con una visione del mondo come flusso universale di energia.
Con la loro paradossale estetica di «artificiale naturalezza» e la messa in tensione tra opposti, nell’ambito di un pensiero analogico fondato sulla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, questi giardini esprimono quel fluire e la coerenza interna del processo.
Sono perciò, al tempo stesso, con altrettanta evidenza, testimonianza di alterità rispetto al nostro occidentale pensiero delle distinzioni, che celebra la centralità dell’uomo, del primato del suo punto di vista di osservatore interessato a fissare la forma, estraneo e dalla natura separato. E ciò, per quanto sia da tempo in corso una faticosa, spesso feconda dialettica tra fascinazione per quella alterità e possibilità di intenderla con gli strumenti analitici del nostro pensiero occidentale. O quantomeno di ispirarvisi in un dialogo di molteplici e simultanee possibilità di cui i giardini sono occasione e veicolo.
Di questa contemporaneità – talvolta semplicisticamente ridotta a estetica senza tempo –, di un giardino catalizzatore di culture ma vivo, nel suo continuo reinterpretarsi all’incrocio di sguardi distanti, raccontano ora in modi e a partire da assunti affatto differenti due diversi libri.
Seguendo il filo del pensiero e delle narrazioni di letterati cinesi e giapponesi, antichi e contemporanei, che hanno frequentato, illustrato, teorizzato, quando non concepito giardini, la sinologa Yolaine Escande nell’agile volumetto Giardini di saggezza in Oriente Cina e Giappone ripercorre la funzione di guida verso la saggezza che essi, pur cambiati in aspetto e natura nel corso dei secoli, continuano a svolgere (Deriveapprodi, pp. 90, euro 12.00, nella collana «Habitus» dove da poco è anche apparso, in dialogo ideale, il corrispondente Giardini di saggezza in Occidente dello storico dell’arte dei giardini Hervé Brunon). Con l’avviso che, nell’interconnessione costante con scrittura letteraria, pittura di paesaggio, ceramica, cerimonia del tè, calligrafia, «in materia di giardini teoria e filosofia di riferimento sembrano essenzialmente provenire dalla Cina, mentre le realizzazioni più innovative, insieme alla conservazione delle varie forme di giardini antichi di epoche diverse, sembrano trovarsi sul territorio giapponese».
Da storica dell’arte, ma, specialmente, ormai pluripremiata per quanto giovane progettista di giardini, Sophie Walker propone invece nel volume riccamente illustrato dedicato a Il giardino giapponese un’analisi della sua evoluzione storica. Articolata certo nell’ambito dell’estetica e della cultura tradizionali – seguendo le molteplici linee di sviluppo, tipologie e variazioni in una rassegna dei principi estetici e degli elementi paesaggistici che nei diversi contesti quei principi inverano –, ma con un occhio alla loro intertemporalità, spaziando dagli antichi santuari shintoisti ai giardini dei templi buddisti, a quelli imperiali e, passando per i giardini senz’acqua, quelli del tè, o quelli interni dei cortili e dei patii invisibili dalla strada, fino a considerare i più recenti progetti urbani contemporanei, o i giardini di ambasciate e musei d’arte (Phaidon-L’Ippocampo, pp. 304, euro 39.90).
Non a caso, nella documentazione fotografica – stampata su carta grigia, a stendere un’efficace patina meditativa –, a corredo delle schede che illustrano un centinaio dei principali giardini del Giappone, vengono enfatizzate occasioni e figure di tramite, di visitatori, artisti e studiosi occidentali il cui lavoro è stato influenzato dal giardino giapponese. Da Frank Lloyd Wright al Walter Gropius che dal Ryoanji di Kyoto scrive a Le Corbusier nel 1954, da Yves Klein a David Chipperfield, Sam Francis, David Hockney, a John Cage e la sua Where R = Ryoanji del 1983, a Richard Long di A Line In Japan, fino a Isamu Noguchi.
A controcanto la Walker convoca poi brevi saggi di autori ospiti, personalità dell’attuale mondo dell’arte, dell’architettura, del design, dal Tadao Ando delle architetture invisibili di Naoshima, che senza fine crescono insieme al paesaggio, al saggio sui giardini di Kyoto del pittore minimalista coreano Lee Ufan, all’Anish Kapoor delle considerazioni sul vuoto come oggetto in potenza.
Pur nella diversità di approccio, nei due volumi emerge come sottofondo comune quanto l’arte dei giardini di questo oriente contempli, nella dimensione mistica fondata sulla pratica della meditazione, una forte componente spirituale. Risultando, seppur variamente, al di là degli aspetti tecnico formali, strumento privilegiato di trasformazione di sé secondo uno specifico procedere conoscitivo.
Un procedere dove il progettista si fa coreografo dello spazio fisico e spirituale, implicando il visitatore che, attraverso il suo vissuto, «completa gli effetti del giardino sui suoi sensi». In giardini da percorrere, fisicamente, coinvolgendo il corpo in una pratica performativa dove il prendere attivamente parte ci rende consapevoli (ad esempio, con il variare delle pavimentazioni) o, mentalmente, di fronte a spazi inaccessibili, da contemplare soltanto attraverso le vedute incorniciate delle aperture quadrate (la finestra dell’Illusione) e tonde (la finestra dell’Illuminazione). Spazi essenziali, spesso così astratti – specialmente nel giardino secco o karesansui – che invitano a liberare l’immaginazione, evocando l’invisibile, il nascosto, o per analogia l’implicito e immaginato: secondo il modo di pensiero del mitate, per cui, sapendo cogliere negli elementi del giardino qualcosa di diverso, si intende ad esempio per acqua la ghiaia rastrellata. Un concetto che, tramite la tecnica del «paesaggio in prestito» (shakkei), si dilata a comprendere le visuali oltre il confine, oltre lo spazio fisico del giardino, nei panorami contermini, come pure richiamando scenari noti o vedute immaginate, ma anche il chiarore dell’inafferrabile luna da ammirare da apposite terrazze (tsukimidai).
Un ampliamento della conoscenza che passa per una rete in tensione di elementi che il giardino invera. Portali, padiglioni, ponti, come pure l’ubiqua presenza delle pietre, gli alberi contorti a catturare energia, l’uso pervasivo dei muschi a dar conto del cambio di prospettiva dell’infinitamente piccolo.
Crescita di consapevolezza, nella solitudine come nella relazione con gli altri, dove il continuo rinviare tra interno e esterno, interiorità e macrocosmo, fa del giardino un mezzo di accesso alla saggezza.
Come argomenta Yolaine Escande, una saggezza, quella appresa nel giardino, vissuta come esperienza condivisa. In un procedere in empatia con il fluire del vivente verso il divenire di una rivelazione (satori). Che si riverbera così nel minimalismo concettuale anni sessanta del Mono-ha o nel mitate proposto nel 2002 dal Time garden di Tatsuo Miyajima a Osaka, come già, trasmigrando oltre le latitudini dei giardini di questo oriente, nelle righe essenziali della citata cartolina che Gropius scrive dal giardino di rocce Ryoanji a Le Corbusier: «caro Corbu, tutto quello per cui abbiamo lottato ha il suo parallelo nell’antica cultura giapponese. Questo giardino roccioso dei monaci zen del XIII secolo – pietre e ghiaia bianca rastrellata – potrebbe essere stato disegnato da Arp o Brancusi, un inebriante angolo di pace».