Puntuale come ogni anno di questi tempi, un’euforia floreale attraversa la città di Londra irradiandosi a partire dall’esclusivo quartiere di Chelsea. Qui, nei giardini del Royal Hospital, si è appena tenuta, per cinque giorni intorno all’ultimo fine settimana di maggio, come sempre inaugurata dalla regina, l’edizione 105 del Chelsea Flower Show, la maggiore esposizione di piante e giardini del vecchio continente.
Impeccabilmente organizzata da una delle più famose istituzioni di settore, la Royal Horticultural Society, la mostra finisce per risultare un ibrido a cavallo tra occasione mondana, evento di costume e opportunità di bilancio dello stato dell’arte e delle tendenze del giardino, delle sue implicazioni culturali, come del mercato che gli ruota attorno.

Ciò, anche in ragione del convergere di un pubblico di 167.000 visitatori paganti un costoso biglietto (fino a 105 sterline per chi non è membro della RHS) e della partecipazione in concorso di nuovi e affermati talenti, artisti del giardino e del paesaggio che si contendono le ambite medaglie nelle diverse categorie previste per i giardini appositamente realizzati – incredibilmente, a vederli finiti, nelle sole tre settimane precedenti. Il tutto con la complicità di una copertura mediatica serrata, BBC con studio di trasmissione dedicato in loco, nuovi media, più di 1000 i giornalisti accreditati da tutto il mondo.

Elementi tutti che testimoniano, tanto più in tempi di Brexit, del rilievo internazionale di un evento così «istituzionale» che vede ancora un ruolo guida e di orientamento per un’orticoltura tipicamente britannica .

Anche in questa edizione, i giardini si distinguono tra quelli più spettacolari, appunto gli Show gardens, di 22 metri per 10, e i più piccoli. Oltre ai consueti Artisan gardens, da quest’anno la nuova categoria dei cosiddetti Space To Grow propone idee e soluzioni per contesti urbani.

Coerentemente, se si vuole, con questi nostri tempi confusi e contraddittori, i temi delle opere-giardino di questa edizione del Chelsea Flower Show alternano e incrociano fughe in avanti, tecnologicamente ordinate, con il rifugiarsi in soluzioni tradizionali. Finendo per suggerire come di fronte a variabili sempre più estreme e imprevedibili, in particolare del clima generale (non solo quello meteorologico), le piante in artificio e la bellezza dei giardini possano far trasparire soluzioni sperimentali, e assieme graduali e molecolarmente disseminate, per far fronte alle principali sfide del momento, dalle preoccupazioni ambientali alle aspirazioni a una salutare, quando non salvifica, ricomposizione in termini di ben essere, tanto a livello individuale che sociale, tra noi e la natura.

Se l’ispirazione naturale della ricostruzione filologica del rassicurante paesaggio del Welcome to Yorkshire Garden di Mark Gregory ha incontrato il favore del pubblico durante lo show, il premio best nella categoria principale è andato all’afflato suscitato dal rifugio, all’ombra grafica di una betulla nigra in dialettica con l’esuberanza della trama delle piantagioni, che Chris Beardshaw ha voluto come metafora di un auspicato percorso di rassicurazione per minori che abbiano subito abusi – ad essi è rivolto il lavoro dell’organizzazione benefica che intitola The Morgan Stanley Garden for the NSPCC.

Ancora, poi, giardini che evocano panorami. Da quello archetipico, della radura nel Weston Garden del veterano Tom Stuart-Smith (unico, tra i grandi giardini, non in concorso e percorribile dal pubblico, mentre gli altri si possono soltanto osservare a distanza su due lati) con la sua varietà di texture e fogliami; a quello della regione vinicola sudafricana rivisitato da Jonathan Snow in The Trailfinders South African Wine Estate, che, sullo sfondo della facciata di una fattoria del Capo, propone la progressione che dalle rose e gli agapanthus del giardino, traguardando un filare di viti, finisce in un’arroventata boscaglia fine di vegetazione pirofila.

Panorami assieme naturali e culturali, nel giardino alla seconda, ispirato a quello della scultrice Barbara Hepworth e del compositore Leo Geyer, progettato da Stuart Charles Towner; o nella proiezione di un ideale mediterraneo con cui si cimenta Sarah Price. Luci e ombre scandite da pareti impastate nel modello dei giardini messicani di Luis Barragán vibrano sulla ghiaia e tra piante in grado di affrontare la siccità.

Così, fino al paesaggio sociale del giardino in «corrispondenza di semi» con quello realizzato dai rifugiati siriani del campo profughi di Domiz, nel nord dell’Iraq, il Lemon Tree Trust Garden progettato da Tom Massey per lo sponsor, scusate se è poco, Morgan & Stanley, a mettere in risalto il ruolo del giardinaggio nel ricreare spazi residuali di vita, utilizzando oggetti di scarto e un insieme di piante commestibili e fiori che evochino ricordi e bellezza.

Per altro verso al giardino si richiede di farsi tramite di nuove consapevolezze ambientali, disegnando soluzioni che, a fronte di una sempre maggiore dipendenza delle nostre vite dalle tecnologie, «alleviino una routine sempre più sottomessa al lavoro» (sic!), si tratta del disegno futuristico dell’LG Eco-City Garden di Hay Hwang, dove lo sponsor è LG Electronics – o addirittura, nel caso della collaborazione tra Ikea e Indoor Garden

Design, smaccatamente mostrando come «ecologizzare» gli spazi di lavoro possa «migliorare significativamente la produttività».

Più seriamente, Tony Woods propone con Urban Flow un giardino teso al recupero dell’acqua piovana, in un contesto di scelte vegetali ispirato alla biodiversità; o ancora, celebrando la bellezza dei giardini sottomarini, John Warland evidenzia l’impatto devastante dei rifiuti di plastica nei nostri oceani con il suo The Pearlfisher Garden.

Sempre nella sezione dei giardini urbani, si incontra la progressione piramidale di duecento cubetti di cemento tra i quali svettano piante diverse per forma e consistenza, a riflettere le diverse condizioni della nostra epidermide, nel giardino concettuale di Robert Barker, intitolato Skin Deep, dove affiora una dialettica esteriorità-interiorità che si ritrova anche nell’impressionante giardino show di Nic Howard, The David Harber and Savills Garden, che nella ricerca di un procedere in empatia con l’ambiente vuole innescare un processo trasformativo, dal primo piano delle scomposte graminacee a una più controllata sezione di peonie, geum e lupini, nel ritmo di una serie di archi di bronzo e specchi fino alla scultura, sullo sfondo riepilogativo di un muretto, dove a contrappunto convive l’essenziale architettonica verticalità dell’equiseto con la multicolore spontaneità degli erigeron.
In ogni caso, e per ora all’inseguimento di un filo sull’oggi difficile da rintracciare, resta indubbia la funzione di indicatore del gusto svolta dal Chelsea Flower Show, amplificando nei decenni trascorsi tappe e tendenze nell’ambito del disegno del giardino, da quello roccioso a quello «per stanze» anni settanta, all’onda neo-naturalista anni novanta delle erbacee perenni e finanche accogliendo alcune istanze di un certo rispettoso procedere planetario.

Per l’intanto, oltre i confini del Chelsea, l’euforia floreale percorre la città e non solo dilagando in un parallelo, ma del tutto autonomo, festival di eventi in libero accesso: il Chelsea Fringe (siamo alla settima edizione), senza un tema imposto e aperto a sessioni di giardinaggio, installazioni d’arte, passeggiate, workshop, spettacoli. A celebrare le mille forme e esperienze di incontri e relazioni vegetali, con le piante e tramite i giardini.