Tokyo sta cercando il Google del futuro. Ma il compito non sembra dei più semplici. Il 17 settembre scorso, a Tokyo, a Shibuya si è tenuto uno dei sempre più numerosi contest per startup. L’obiettivo: trovare l’embrione del colosso hi-tech giapponese del futuro. La società organizzatrice, Startup Sauna, un incubator d’imprese finlandese, organizza eventi che attirano oltre 3mila giovani imprenditori e studenti da Europa del Nord e Russia.

La location scelta per l’appuntamento di Tokyo non è stata casuale. Il quartiere di Shibuya è infatti conosciuto anche come “Bit Valley”, perché è qui che negli anni 90 si sono stabiliti le principali aziende dell’IT giapponese. Ma mentre i colossi dell’ “azienda Giappone”, soffrono, le startup richiamano sempre più talenti e l’attenzione dell’opinione pubblica.

Il nuovo Google ancora non si vede, ma il numero di startup giapponesi è dal 2012 in continuo aumento. All’incontro organizzato da Startup Sauna ha partecipato Anydoor, nata nel 2009 e sviluppatrice di Conyac, un servizio di traduzione online per privati, aziende e traduttori. «Investitori e concorrenti sono aumentati. Bisogna vendersi meglio», ha dichiarato allo Asahi Shimbun Takuya Hashimoto, uno dei responsabili dell’azienda.

L’economia giapponese, da qualche mese, sembra essere tornata a girare. Conseguenza di una politica economica fondata sugli investimenti pubblici e un maggiore stimolo monetario, studiata di concerto dal governo liberal-democratico di Shinzo Abe e da Haruhiko Kuroda, governatore della Banca centrale giapponese.

Risultato: aumenta il denaro in circolo; aumentano gli investitori, i cosiddetti venture capitalist, spesso legati ai grandi gruppi industriali e aumentano anche i soggetti che aiutano le startup a sviluppare un proprio business: gli acceleratori o incubatori di impresa.

Più che Google o Facebook, sono le nuove Toyota e Sony a fare da locomotiva al settore delle startup nipponiche. Terra Motors ne è un esempio. L’ azienda è stata fondata nel 2010 da Toru Tokushige, 43enne, ex dipendente di una grande compagnia assicurativa e oggi è una dei più promettenti produttori di scooter elettrici. «Stiamo dando un contributo nel trasformare l’idea di mobilità», si legge sul sito di TEP, un incubatore d’impresa che supporta lo sviluppo di una fascia dell’innovazione sulla linea ferroviaria che unisce Tokyo al polo universitario di Tsukuba.

È in un piccolo ufficio della Bit Valley che Terra ha sede. In tutto vi lavorano 15 dipendenti, ma l’azienda punta ad aumentare la produzione in Cina e in un nuovo stabilimento in Vietnam. Il focus di Terra è il mercato asiatico, Cina e Sudest asiatico in particolare. Con l’80 per cento del mercato mondiale di scooter e motocicli qui concentrato e i governi locali sempre più preoccupati dall’aumento dei gas di scarico nell’atmosfera, l’occasione è di quelle da non perdere.

Tokushige ha spiegato così la crescita delle startup. «Fino a qualche anno fa assumevo solo “falliti”, ragazzi scartati dalle grandi aziende. Ora sono proprio ex dipendenti di aziende mainstream a venire qui. Perché qui a Terra possono sperare di dare un contributo cruciale e tangibile all’azienda».

Terra però sarebbe solo un’eccellente eccezione. Nel panorama imprenditoriale giapponese, infatti, in generale manca la capacità di innovare che ha consacrato l’imprenditoria 2.0 delle startup della Silicon Valley. O meglio, l’innovazione sarebbe strettamente imbrigliata in strutture difficilmente scardinabili.

Come ha spiegato alla Bbc Nobuyuki Hayashi, consulente informatico per diverse aziende giapponesi, molto spesso «un’azienda assume laureati da una stessa università, che hanno studiato le stesse materie e non hanno mai incontrato persone al di fuori del loro gruppo. Questo dipende in gran parte da come è stato pensato il sistema educativo giapponese e il sistema di assunzione dei neolaureati».

In Giappone, al momento del shukatsu (la serie di test e colloqui a cui i neolaureati giapponesi si sottopongono per entrare nel mondo del lavoro) contano sì le abilità individuali, ma conta molto anche l’università di provenienza. Un datore di lavoro potrebbe preferire infatti un laureato proveniente dalla sua stessa università piuttosto che da una diversa. In questo modo, l’azienda si garantisce un corpo di impiegati omogeneo per formazione e approccio al lavoro.

Il freno delle aziende giapponesi, piccole o grandi che siano, lo spiega Masataka Matsumoto, un passato in Yahoo Japan e poi amministratore delegato e consulente di diverse startup, in un dibattito ospitato dalla rivista economica online Toyo Keizai: mancando molto spesso persone di provenienza diversa – per nazionalità o formazione – viene meno “la discussione”, una “cultura del confronto” da cui spesso nasce l’innovazione. Questo è il segreto delle aziende della Silicon Valley. Invece in Giappone, spiega Matsumoto, «se il tuo superiore ti fa notare un errore, la risposta da dare è: ho capito, correggo».

Secondo una ricerca della Banca Mondiale, il Giappone è al 114esimo posto su 185 per facilità di aprire un’impresa. In più, i giovani imprenditori lamentano un problema generazionale: i businessmen di ieri non si fidano delle degli imprenditori di oggi.

Eppure le idee non mancano di certo, tanto che, secondo una ricerca del Venture Enterprise Center, un think tank che segue i trend delle startup in Giappone, a partire dal 2012 gli investimenti in fondi dedicati alle piccole e medie aziende sono aumentati. In particolare, sottolinea la ricerca, è stato rivelato un incremento nella zona del Nordest del Paese, colpito nel marzo 2011 da terremoto e tsunami.

«Non abbiamo la pretesa di diventare superstar dell’innovazione a livello globale come Apple», ha spiegato al manifesto Takaharu Saito, amministratore delegato di una startup con sede a Sendai, nella prefettura di Miyagi, una delle più colpite dal disastro di oltre due anni fa. «Abbiamo piuttosto riempito un vuoto nella nostra comunità».

Communa, la società creata da Saito, si occupa principalmente di coordinare e offrire servizi di traduzione per quanti si recano a condurre ricerca nelle aree colpite dal terremoto e dallo tsunami, supportare le aziende locali nella vendita dei loro prodotti all’estero e sostenere la “biodiversità” della cultura della città di Sendai.

Communa ha coordinato la promozione e la vendita all’estero, in particolare negli Stati Uniti, di biglietti d’auguri e quaderni (http://tegamishop.com/ ) dal design originale prodotti da una stamperia di Sendai, che come molte altre aziende è stata interessata direttamente da terremoto e tsunami. Nel progetto hanno avuto parte tutti e tre le anime dell’azienda: Saito per la parte linguistica, l’esperto di marketing Takeru Kasama, per l’analisi della strategia di mercato, e la designer Ayako Osanai per la parte creativa.

«Il “core business” della mia azienda nasce proprio in risposta all’11 marzo 2011. Quindi il mio approccio al lavoro è totalmente cambiato, o meglio, si è definito in funzione di quanto successo», ci racconta ancora Saito.

Anche Katsuyoshi Kuriya un altro piccolo imprenditore della zona ha deciso di impegnarsi a favore della ripresa dallo schock dell’11 marzo 2011, offrendo servizi di traduzione per connettere le comunità locali al mondo. «Non credo che il mio business sia innovativo, ma mi ha dato modo di vivere dopo il Lehman shock», ci ha spiegato Kuriya. Che ha aggiunto: «Il giro d’affari di prima del terremoto e tsunami non è tornato. Quindi ora il tempo che mi rimane libero dal lavoro lo dedico interamente al volontariato».

«Molti, almeno nella mentalità, sono diventati più ‘imprenditori’ dopo il disastro», ci dice ancora Saito. «Sono più desiderosi di dare il proprio contributo alla propria società». E, forse, sarà da qui che nascerà qualcosa di davvero innovativo. «In un futuro molto vicino il lavoro aumenterà», ci spiega ancora Kuriya. «Ma non sarà merito della Abenomics».