Duecento milioni di dollari: questa è la somma che il governo giapponese si impegna a fornire ai Paesi mediorientali impegnati nella lotta allo Stato islamico. Uno sforzo ingente per arginare il rischio di un’avanzata del terrorismo quello promesso dal primo ministro Shinzo Abe durante la prima tappa del suo tour diplomatico in Medioriente che si concluderà il prossimo 21 gennaio. “È nostra intenzione fornire attivamente il nostro supporto nel settore non militare e contribuire alla pace e alla stabilità della regione”, aveva dichiarato ai giornalisti il primo ministro giapponese prima della partenza il 16 gennaio scorso.

In totale saranno 2,5 i miliardi di dollari – rivela Reuters – che il governo Abe intende spendere per aiuti umanitari e infrastrutturali nel tentativo di contribuire alla sicurezza e stabilità del Medioriente. L’interesse giapponese nella regione è forte dato che da qui – in particolare da Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Qatar e Kuwait – arriva la maggior parte delle importazioni giapponesi di greggio. “Non c’è nessun altro modo per sradicare la violenza dal profondo se non portare stabilità alle vite delle persone e far nascere una classe media, anche se è un processo lungo”, ha dichiarato Abe durante l’incontro con alcuni rappresentanti dell’imprenditoria giapponese ed egiziana alla presenza del primo ministro Ibrahim Mahlab.

Dopo l’Egitto – a cui Tokyo fornirà prestiti per lo sviluppo di infrastrutture per un totale di 360 milioni di dollari – domenica Abe era in Giordania, dove ha ribadito gli impegni di Tokyo per il Medioriente e accordato un pacchetto di aiuti da quasi 12 milioni di dollari per sostenere l’impegno nell’accoglienza dei rifugiati di guerra. Da domenica la delegazione giapponese si trova in Israele. Qui il capo del governo giapponese incontrerà la sua controparte israeliana Benjamin Netanyahu: al centro dei colloqui il rafforzamento della cooperazione bilaterale in materia commerciale e di sicurezza informatica e questione israelo-palestinese. Al Cairo, Abe aveva auspicato infatti di poter presto riconoscere lo Stato palestinese e ricordato la “necessità della ripresa delle negoziazioni per giungere presto alla soluzione dei due stati”. Al fine di favorire la mediazione, Abe si recherà anche in Palestina.

Il viaggio del primo ministro giapponese in Medioriente arriva al termine di una settimana “calda” durante la quale Tokyo ha dato l’ok al budget di governo per il prossimo anno. Uscito rafforzato in Parlamento dalle elezioni anticipate di dicembre scorso, una sorta di referendum sulla sua amministrazione in carica da dicembre 2012, il governo Abe ha approvato un aumento di spesa per la difesa – 42 miliardi di dollari, il più ingente investimento nel settore dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Dopo i fatti delle scorse settimane e con l’allerta terrorismo alle stelle in Europa, Tokyo prende così posizione nella “guerra globale al terrorismo” a fianco del Vecchio continente e degli Stati Uniti. Il tutto, nel quadro strategico del “pacifismo proattivo”, principio fondante della politica estera voluta da Abe: una politica estera “che guarda al mondo intero” attraverso la quale rilanciare il paese del Sol Levante tra le potenze dell’“Occidente”.

In questo senso può essere letto il “riarmo” giapponese. Dopo la fine dell’embargo sull’export di armi autoimposto negli anni Sessanta e Settanta e la creazione di un Consiglio di sicurezza nazionale sul modello americano, in questi giorni a Tokyo si discute di una revisione delle politiche di assistenza internazionale ai paesi in via di sviluppo in cui potrebbero rientrare anche forniture militari. Ma il momento cruciale di quella che alcuni osservatori definiscono la “svolta a destra” del Giappone è arrivato nell’estate del 2014, con la reinterpretazione dell’articolo 9 della costituzione giapponese riguardante la rinuncia “eterna” di Tokyo alla guerra. Ora, in base alla risoluzione adottata dal governo conservatore di Abe, le forze militari giapponesi potranno contribuire attivamente alla “autodifesa collettiva”; in altre parole, potranno intervenire a fianco degli Stati Uniti o di altri alleati in caso di minacce sensibili alla sicurezza comune. E la guerra allo Stato islamico e, su scala più vasta, al terrorismo internazionale, potrebbe essere il teatro ideale del ritorno alle armi per il Giappone.