Gianrico Tedeschi è stato un grande uomo di teatro. La sua dimensione e la sua disciplina gli hanno permesso di dirigere i suoi interessi verso vari generi. Fu il Prof. Henry Higgins nella prima versione italiana di My Fair Lady il musical di Lerner e Loewe, al Teatro Sistina di Roma nel 1964. Fu molto apprezzato da Garinei e Giovannini che lo vollero nei molteplici ruoli da comprimario di Renato Rascel nella commedia musicale Enrico ’61, in La padrona di Raggio di luna e in Amori miei. Poi la televisione con le operette No, no Nannette, La vedova allegra, Al cavallino bianco, L’acqua cheta, Lily Champagne di Scarnicci e Tarabusi. Infine L’opera da tre soldi con la regia di Giorgio Strehler con Milva. In questa inedita intervista realizzata nel 2004 Tedeschi ricorda proprio quel mondo.

Nella sua carriera non ha mai fatto il varietà ma si è dedicato alla commedia musicale.
Non ho iniziato dalla commedia ma dalla rivista, la prima fu Chi è di scena di Michele Galdieri con Anna Magnani. Poi sono arrivato alla commedia musicale con Tognazzi e al Sistina con Enrico’61. In seguito nel 1964 portammo in scena, primi in Italia, My Fair Lady con Delia Scala e Mario Carotenuto. Fu una grande produzione di Remigio Paone e Lars Schmidt; tra gli spettatori ci furono il direttore d’orchestra della versione americana, Rex Harrison mentre a Milano venne Ingrid Bergman: un vero evento. Ho fatto anche una commedia con musica di Iaia Fiastri, Amori miei prodotta da Garinei e Giovannini e interpreta da Ornella Vanoni con le musiche di Berto Pisano mentre ho fatto la versione televisiva de La padrona di Raggio di Luna sempre di Garinei e Giovannini con le musiche di Gorni Kramer. Quella fu la prima vera commedia musicale. Era il 1961 e nel cast televisivo subentrai io e Delia Scala. Poi ancora in televisione tanta operetta come No, no Nanette, Al cavallino bianco, La vedova allegra. In Italia si stava passando dalla rivista alla commedia musicale per la quale servivano attori, io avendo fatto sempre teatro di prosa ero per Garinei e Giovannini uno dei più adatti al genere.

Questa esperienza la portò a recitare anche ne «L’opera da 3 soldi»?
Si, arrivai a fare l’opera di Brecht (regia di Giorgio Strehler) dove non solo dovevo saper recitare ma anche cantare e non era teatro leggero, tutt’altra cosa rispetto alle commedie musicali italiane. C’erano due straordinari cantanti, Domenico Modugno e Milva: era il 1973. Pensi che nella prima edizione italiana a dirigere e curare l’orchestra ci fu Bruno Maderna!
Vorrei ricordare l’epoca di Garinei e Giovannini. «Enrico ‘61» era proprio lo spartiacque fra la produzione delle cosiddette «favole musicali» con le musiche di Kramer e quella della vera commedia musicale con le musiche di Trovajoli. In mezzo l’opera scritta da Renato Rascel.

L’Enrico’61 fu una commedia particolare, perché si volevano celebrare i 100 anni dell’Unità d’Italia e quindi era curiosa, praticamente una storia dell’Italia attraverso la vita di un protagonista, Rascel, attraverso i più significativi e i più importanti momenti della storia d’Italia. Mi ricordo che c’erano riferimenti all’immediato dopoguerra, ricordo persino la presenza di Togliatti che ci venne a trovare al Sistina. Dopo Roma non ho potuto proseguire e la commedia approdò a Londra, dove recitarono in inglese, ed ebbero un grosso successo. In quella commedia facevo un po’ di tutto, interpretavo tanti personaggi, facevo il dannunziano, l’ufficiale tedesco, il poeta. Mi sono molto divertito.

Come ricorda Garinei e Giovannini?
Non ne parlo al passato perché per me sono ancora Garinei e Giovannini. Non ho lavorato molto con loro ma ho avuto un rapporto bellissimo, direi sentimentale, affettuoso. Sono stati soprattutto capocomici e impresari ed erano autori dei loro lavori, cosa insolita. Persone straordinarie, l’esempio del romano raffinato, intelligente e direi proprio aristocratico perché erano due aristocratici pur non essendolo e pur non apparendo così. Insomma dei grandissimi signori, molto civili anche se ho avuto dei momenti duri con loro. Quando ad esempio per il secondo anno di Enrico’61, vivevo una inquietudine e anche se avevo avuto una affermazione particolare con quella commedia, sentivo il bisogno di non fermarmi lì. Espressi questo mio desiderio a Giovannini che mi disse che mi avrebbero potuto sostituire anche con «Cacini» (noto attore di teatro e avanspettacolo romano della prima metà del Novecento, ndr), come a dire che mi avrebbero potuto sostituire anche con l’ultimo attore in coda. Avevano sempre la battuta pronta, erano spiritosi. Furono imprenditori molto intelligenti perché avevano capito che la commedia musicale che veniva dalla rivista (e loro ne avevano fatte tante) mancava di quella grande qualità e di quei valori che vengono direttamente dal teatro. Quindi andavano a vedere gli spettacoli di Visconti, quelli di Strehler, Squarzina, Ettore Giannini e Enzo Garinei intuivano che dovevano portare quelle qualità nelle loro produzioni. Rigore, gran gusto che significava avere scenografi importanti, attori importanti. Hanno quindi portato nello spettacolo di rivista quella qualità che mancava per rendere il prodotto appetibile. D’altronde la rivista era fatta dal comico, dalla soubrette e dalla spalla. Il teatro di prosa del dopoguerra mirava proprio a creare una qualità in generale. Loro due furono talmente intelligenti che riuscirono a trasformare il teatro di rivista in teatro di grande qualità che divenne poi quello della commedia musicale quello insomma di Enrico’61, di Aggiungi un posto a tavola.

In «My Fair Lady» ha avuto come partner Delia Scala, che ricordo ha di lei?
My Fair Lady è stato lo spettacolo leggero più bello che abbia fatto. Detto questo, ricordo bene Delia che era quanto di meglio si potesse avere per il ruolo di Eliza Doolittle anche perché lei nella vita era un po’ come il suo personaggio: straordinaria ingenuità, generosità, freschezza, vivacità, sincerità. Sembrava una popolana perché metteva assieme tutte queste doti che le permisero quindi di far emergere il suo personaggio così come lo voleva Shaw. Delia era una persona piena di interessi, rigorosissima, frutto dei suoi tanti anni di studio di danza classica. La ricordo come una persona che voleva conoscere cose nuove, era piena di interessi. Ricordo che venivo da una lunga tourneé in America e in Unione Sovietica dove portavo l’Arlecchino servitore di due padroni in cui interpretavo Pantalone. Lei non lo conosceva ma era molto incuriosita tant’è che in una giornata libera dalle prove andammo a vedere a Milano una matinée e ne rimase entusiasta. Per dire che non è facile per una che nasce soubrette coltivare tanti interessi e aspirare a migliorarsi sempre.

Lei ha iniziato presto a fare televisione come ricorda gli esordi?
Era una televisione degli esordi appunto, una televisione impostata sul teatro, molto diversa da quella che si poteva vedere in altri paesi, come ad esempio quella degli Stati Uniti. Da noi, proprio per questa impostazione «teatrale», avevano bisogno di attori che provenissero da quel mondo, e io ero adatto, infatti ho lavorato molto sul piccolo schermo, ho fatto davvero molte commedie. Allo stesso tempo era però molto stressante perché dovevamo preparare il tutto in meno di venti giorni e poi dovevamo andare in diretta con tutti i rischi connessi al fatto, poteva succedere di tutto, potevi dimenticare una parte o fare qualche errore di dizione, o potevano sbagliare i tecnici. Ricordo che in un Enrico IV un attore appena ucciso in scena, fece per alzarsi prima del tempo e venne ripreso dalla telecamera. Tino Carraro invece, con la sua grande professionalità, non ricordando la sua parte, si mise a muovere la bocca a vuoto facendo in modo che si credesse che era andato via l’audio. Certo, tutti incidenti che oggi fanno sorridere ma all’epoca…