Gianni Rinaldini, in una recente intervista al Corriere che ha fatto molto rumore Paolo Fresco ha rivelato che Gianni Agnelli gli disse di vendere la Fiat, ma solo dopo che lui fosse morto.
Fresco dice la verità. Tra lasciando le sue vanterie, il mandato che ebbe fu proprio vendere la Fiat. E tutto quello che è avvenuto dalla morte di Gianni Agnelli ad oggi è conseguente a quella scelta: gestire in modo graduale nel tempo l’abbandono del settore auto da parte della famiglia.

Come fa ad esserne così sicuro?
Era evidente già nel tavolo di confronto a palazzo Chigi con l’azienda e il governo Berlusconi gestito da Gianni Letta che ci fu nell’inverno del 2002. La crisi della Fiat era esplosa e Agnelli aveva annunciato l’accordo con General Motors fatto nel marzo 2000.

Voi eravate contrari. Fu una trattativa a tratti drammatica.
Come Fiom ponemmo il tema dell’entrata pubblica in Fiat come elemento di garanzia per gli stabilimenti italiani. Tutto il mondo politico lo ritenne una follia perché eravamo nell’era delle privatizzazioni. L’unico d’accordo, devo ammetterlo, fu Tremonti (allora ministro dell’Economia, ndr). La Fiat era nel caos più totale ed era appena stato nominato amministratore delegato Alessandro Barberis. Ci telefonò in una pausa della trattativa per chiederci un incontro bilaterale. Dicemmo di sì ma non lo sentimmo più. Alla ripresa Fiat e governo si presentarono con un accordo “prendere o lasciare”: era il famoso “convertendo” con cui le banche salvavano la Fiat e, se non fossero state ripagate, nel 2005 sarebbero diventate azioniste. Noi naturalmente non firmammo e il tavolo si chiuse senza alcun accordo sindacale.

Nell’intervista Fresco ricorda la famosa clausola del 20 per cento: a richiesta di Fiat gli americani dovevano comprare il restante 80. La clausola era esigibile a partire dai tre anni e mezzo dall’accordo del 2000 con scadenza a nove anni (2009). Pochi mesi dopo, nel 2003 Sergio Marchionne entra nel cda Fiat, di cui diventò ad il primo giugno 2004. E riesce a ricomprarsi da Gm il 20 per cento.
I due anni successivi furono molto duri come conflitto sindacale. Ci furono i tre mesi di blocco di Termini Imerese e successivamente i 21 giorni di Melfi. Poi arrivò la morte di Umberto Agnelli. Pochi mesi dopo Fresco se ne va. Ma paradossalmente salvò Fiat imponendo a Gm la famosa clausola del 20 per cento, che poi fu usata da Marchionne. Nel primo incontro con lui ci disse che il problema di Fiat non era Termini Imerese o Melfi, ma che Fiat era tecnicamente fallita annunciandoci che la settimana successiva l’avrebbe offerta gratis a Gm se si fosse accollata i debiti. Gli americani non accettarono e lui usò la clausola Fresco riprendendosi il 20 per cento già venduto e facendosi pagare una penale altissima.

Che impressione ebbe del primo Marchionne? Come inquadrò il personaggio? Il filosofo prestato alla finanza, il manager canado-abruzzese col maglioncino di ordinanza…
Nessuna impressione. Gli era stata consegnata una cambiale in bianco: la sua missione era quella di gestire la partita che garantisse alla famiglia Agnelli di non scucire più un soldo per la Fiat e di venderla. E lui diligentemente portava avanti questo compito.

Un altro passaggio decisivo fu quello del 2005. Scade il “convertendo” ma Marchionne riesce a tenere la Fiat in mano agli Agnelli.
Era agosto. Tutti i giornali dicevano che la Fiat si comprava con poco e che in pista c’erano due o tre cordate. A quel punto fu messo in piedi un’operazione finanziaria che in questo paese poteva fare solo la Fiat per il servilismo dei vari poteri nei suoi confronti. Un’operazione che ha avuto una coda giudiziaria con i processi a Stevens e Gabetti (condannati in primo grado per aggiotaggio e poi prescritti, ndr) ma che ha permesso alla famiglia Agnelli di mantenere il controllo con il 30 per cento senza spendere quasi nulla. Noi, grazie alla consulenza di Sergio Cusani, denunciammo la mancanza di controllo della Consob in un’operazione strana che non toccò mai Marchionne.

Tre anni dopo arriva la grande crisi. Anche in questo caso Marchionne – il socialdemocratico, come lo definì Fassino – la sfrutta a suo favore…

Nei tre anni precedenti ha venduto molte quote riducendo i costi del gruppo. Poi ha colto l’opportunità della crisi e dei fallimenti dei grandi gruppi americani per comprare Chrysler con i soldi di Obama. Un’operazione che voleva replicare con la Opel.

E perché non c’è riuscito? Chi gliel’ha impedito?
Lo ha bloccato la Merkel, allertata dal sindacato tedesco. In quei giorni in Italia nessuno sapeva niente del piano di Marchionne per la fusione Fiat-Opel. Per avere informazioni dovetti rivolgermi all’IgMetall. Ci incontrammo a Wolfsburg a cena e mi mostrarono il piano che prevedeva la chiusura di Pomigliano e Termini Imerese e di uno stabilimento tedesco. L’IgMetall non riusciva a capire come i soldi li dovesse mettere la Merkel e la convinsero a bloccare tutto.

Arriviamo al 2010: la rottura definitiva con Marchionne. Una rottura anche sindacale che ancora si trascina.
La rottura è preannunciata dal contratto nazionale del 2008 quando la Fiat fa di tutto per impedire una firma unitaria arrivando a ritirare il suo rappresentante dalla delegazione trattante, Rebaudengo. Poco dopo la firma dell’accordo Marchionne dichiarerà che sarebbe stato l’ultimo contratto nazionale. E mantiene la promessa nel 2010. Prima con l’operazione Chrysler sceglie e definisce che il riferimento principale sono gli Stati Uniti, anche per le relazioni sindacali. Durante la trattativa sul futuro di Pomigliano proprio Rebaudengo (storico responsabile delle relazioni sindacali del gruppo Fiat, ndr) in trattativa inizia ad elencare le modifiche richieste al contratto. Quando arrivò all’ottava gli chiesi se avessero deciso di fare un loro contratto. La risposta fu: “Esatto, è quello che vogliamo”.

In quel modo si materializzò l’uscita di Fiat da Confindustria, impensabile fino a pochi anni prima. Ma con quella mossa anche voi, come Fiom, foste cacciati dalle fabbriche Fiat…
In un’assemblea a Pomigliano coi lavoratori molto difficile accettammo i 17 turni e altri punti, ma mettemmo come paletti invalicabili i diritti dei lavoratori sulla rappresentanza e gli scioperi. Marchionne andò oltre ed ebbe una sponda politica e sindacale molto forte.

Proprio in quei giorni arrivò la staffetta con Maurizio Landini. Le pesò lasciare in un momento così importante?
Mi pesò ma sono le regole dell’organizzazione. In più sapevo di lasciare ad una persona capace a cui mi legava una amicizia forte.

In questi anni da presidente della Fondazione Claudio Sabattini ha continuato a studiare il caso Fiat. Oggi che Marchionne va verso l’addio come vede il futuro di Fca in Italia?
La situazione non è cambiata. Nessun governo ha chiesto conto a Marchionne di quello che stava facendo. Ora siamo arrivati alla soluzione finale: Marchionne deve completare la missione con il pareggio di bilancio che probabilmente annuncerà il primo giugno insieme all’addio. La famiglia Agnelli nel frattempo con la Exor è impegnata nel settore immobiliare, assicurativo e finanziario. Ma la situazione industriale è molto complicata. Marchionne non è riuscito ad allearsi né con Gm né con VolksWagen e continua a fare scelte produttive, quelle annunciate in questi mesi, sempre più americane anche perché Trump gli impone di puntare su Jeep e Pick Up. Fca è invece quasi assente sui mercati più in espansione come Cina e India, mentre in Europa si rafforza l’asse franco tedesco con Opel-Gm e Nissan-Pegeout: in entrambi i casi nell’azionariato c’è lo Stato. Là sono liberisti ma non hanno problemi a farlo.