«È la semplicità che è difficile a farsi», recitava un verso di Bertold Brecht. Gli articoli di Gianni Mura sono stati caratterizzati da una scrittura semplice e chiara, spesso contornati da una sottile ironia, e non hanno mai ceduto il passo a vezzi e narcisismi. Nei suoi articoli era costante «il senso dell’altro» si metteva sempre al livello del lettore. Era un uomo di altri tempi e fino all’ultima edizione del Tour de France mandava le cartoline agli amici, ai camerieri e ai gestori dei ristoranti che più frequentava a Milano. Immancabile in sala stampa il ticchettio dei tasti della sua Olivetti (ereditata da Brera), tanto che un giorno una giovane cronista al seguito del Tour, irritata gli chiese se non si rendesse conto di arrecare disturbo.

La replica di Gianni Mura: «L’unico disturbo è il silenzio delle vostre tastiere». Quando un quotidiano giapponese al seguito della Grande Boucle, gli dedicò una pagina perché era l’ultimo inviato con una macchina da scrivere disse: «Mi vogliono far passare per un orso marsicano, ma se va via la luce e si spengono i pc, come scrivono?».

Come pochi scriveva ciò che pensava, senza mai cedere alla volgarità. Non gli sfuggivano le piccole cose e ne lasciava traccia nella sua rubrica domenicale su Repubblica «Sette giorni di cattivi pensieri» come evidenzia Gilberto Lonardi, docente di Letteratura italiana all’università di Verona: «Sono cose scritte con un piglio a volte leggero, divertente, ma lui guardava negli angoli della vita e dell’esistenza, non solo italiana, da parte sua c’era uno sforzo anche di ricerca».
Non mancava di punzecchiare i padroni del calcio, arroganti e rozzi, non sopportava i ruffiani, i reggicoda, i prepotenti e i narcisi. Nella sua riservatezza e timidezza di fondo, era un uomo di sinistra, bastava telefonargli e scattava la suoneria del cellulare Chant de partisans, la Bella Ciao francese.

Amava le trattorie anonime, le bevute in compagnia fino a notte fonda «meglio il fiotto che la goccia» diceva. Il rumore dei tasti della sua macchina da scrivere, faceva parte di un più vasto mondo del sociale come ha scritto Michele Serra: «Non era in ansia per la nostalgia della vecchia Olivetti, ma perché faticava a ritrovare, nei tempi nuovi, quegli elementi di amicizia e di convivio – oso dire di fraternità e di amore – che sono stati la sua ragione di vita». Gli arrivavano in redazione decine di lettere al giorno e lui rispondeva con carta, penna e francobollo, e con alcuni intratteneva una corrispondenza privata, un lettore di Macerata lo invitò al suo matrimonio e Mura si presentò con la moglie Paola.

A volte anziché andare a San Siro si recava in periferia per assistere a un torneo e poi scriverne con la soavità che gli era tipica. Un giorno alla bocciofila di un piccolo centro dell’hinterland milanese lo annunciarono agli altoparlanti tra i presenti in tribuna e il pubblico si alzò in piedi ad applaudire.

A circa due anni dalla scomparsa un libro a più voci Per Gianni Mura a cura di Adalberto Scemma (edizioni Zerotre, euro 18) racconta aneddoti e pregi dal giornalista dei primi tempi assunto alla Gazzetta dello Sport appena finito il Liceo classico Manzoni di Milano, a quello del Corriere d’Informazione, L’Occhio, Epoca fino al Mura di Repubblica. Una vita di redazione intervallata da culatelli e salumi affettati al momento che gli arrivavano da ogni parte d’Italia per la sua rubrica «Mangia e bevi», tenuta sul Venerdì con sua moglie Paola Gius, fine intenditrice di vini, condivisi con i vicini di stanza e accompagnati da una bottiglia di rosso, Barbera o Barolo. Ma quando Gianni Mura in quei negozietti della provincia italiana incrociava il salumiere che tagliava a mano, gli brillavano gli occhi: «Sapessi come tagliava bene, vedessi la dolcezza della sua mano» diceva.

Era figlio di un maresciallo dei carabinieri (definì il padre il Maigret della Brianza) e da bambino era vissuto in caserma, sentiva cantare Calabresella e La bela Gigogin, poi negli anni a seguire amò le canzoni di Sergio Endrigo, Luigi Tenco, Jacques Brel e George Brassens, Briel, Piaf, Jean Ferrat, Riky Gianco fino ai De Gregori e Capossela di oggi.

Il vento canoro del ‘68 («ai cortei non partecipavo, andavo dietro al Giro d’Italia per la Gazzetta» disse confidenzialmente a noi del manifesto) lo spinsero verso gli autori più impegnati Giovanna Marini, Liberovici, Straniero, Amodei, quelli del Cantacronache. Quando per gioco una sera a tavola gli chiedemmo le prime dieci canzoni preferite di autori italiani, le elencò in pochi secondi: Titanic (De Gregori), Hotel Supramonte (De André), Ti te se no (Jannacci), Ragazzo mio (Tenco), Le Parole incrociate (Dalla), Generale (De Gregori), Aria di neve e Canzone per te (Endrigo), Senza fine (Paoli).

Era un’autentica enciclopedia della musica, lui stonato per natura sapeva a memoria i testi delle canzoni di tutte le annate di Sanremo. Per il resto vale quello che ha scritto Emanuela Audisio, che ospitò Mura e la moglie Paola nella sua casa di Senigallia, perché si ristabilisse da una brutta broncopolmonite che lo aveva colpito durante l’inverno, proprio nei giorni in cui il suo cuore si fermò: «Gli piaceva la gente genuina, giocare a carte (scopone), le parole crociate. Aveva una memoria strepitosa, non si perdeva niente, mandava spesso l’articolo a braccio, dettava in pochi minuti, provateci voi a sintetizzare una partita (ai rigori), a raccontare una morte (quella di Pantani) e una vita (quella di Gimondi) mentre state al ristorante o su un traghetto. Amava gli irregolari, il fumo, la libertà, i romantici, quelli che si buttano a salvare l’amico anche se non sanno nuotare, quelli che fanno, senza chiedersi se conviene, tutto quello che è sulla strada».

Nel 2015 in Francia gli assegnarono il premio Antoine Blondin, unico giornalista non francofono a vincerlo. Quale eredità ci lascia Gianni Mura? Raccomandava sempre di scrivere chiaro e in italiano. Del resto è la semplicità che è difficile a farsi.