«Avrei voluto fare il cantautore. Il giornalismo è stato un ripiego». Detto da uno come Gianni Mura, che a fare il giornalista ci è riuscito bene, capisci subito perché il suo nuovo libro si intitola Confesso che ho stonato (Skira/Note d’autore, euro 13). Già: nulla osteggia la vocazione di moderno menestrello quanto il non riuscire a mettere in melodioso, o quantomeno dignitoso, gorgheggio una nota dopo l’altra. E il Mura Giovanni proprio non ci è mai riuscito, nonostante il suo sviscerato amore per la musica. Un amore nato quando, bambino, orecchiava Calabresella e La bella Gigogin, canticchiate dagli emigrati – carabinieri della caserma in cui lavorava il padre maresciallo; quando ascoltava in radio e alla neonata tv Modugno e Julia De Palma, Claudio Villa e Nilla Pizzi che alla sua nonna piaceva tanto. Più tardi la scoperta di Brel e Brassens, un passo universitario più in là i Cantacronache.

E lui sempre costretto a tacere nonostante sapesse a memoria le canzoni di tutti i festival di Sanremo. Se apriva bocca, apriti cielo. Glielo dissero con garbo anche Ricky Gianco e Giovanna Marini. Ma, scriveva il poeta, odi et amo. Io amo, dichiara Mura nei nove capitoli di una confessione resa con autoironia, giusta dose di rimpianto per tempi canori irripetibili, motivata ammirazione verso nomi e ritmi divenuti storia della «leggera» italiana e non. Ci sono, nelle cento pagine, le vite diversamente tormentate di Endrigo e Piaf, i sixties di Cuando calienta el sol, il cittì Bearzot cultore del jazz, la Sardegna di Maria Carta ed Elena Ledda, l’elogio della fisarmonica, l’amicizia di Beppe Viola voce anarchica del calcio con Enzo Jannacci voce di poeta stralunato.

Cento pagine fuori dalle biografie e dai saggi, piuttosto appunti dalla vita di uno che la musica ce l’ha nel cuore. E mettendoli nero su bianco, consola tutti quelli che non possono cantare.