Una cosa che mi hanno insegnato gli addetti ai lavori, con un sorriso, è che non si deve chiamare «retrospettiva» la personale di un artista in attività. Perché si dà così per implicito che quell’artista non sia più fra noi sublunari, oppure che quanto doveva dire sia ormai alle sue spalle. È dunque un’«antologica», piuttosto, Sestante di Gianni Dessì (sette lavori fra il 2003 e il 2018, in uno dei suoi spazi «storici», la galleria Otto di Bologna, sino al 15 aprile). Il titolo allude allo strumento di navigazione che, osservando il firmamento, consente di traguardare un punto sull’orizzonte e, facendolo collimare col punto dal quale lo si osserva, individua la nostra posizione e insieme la direzione che abbiamo preso. Buon titolo per uno sguardo non retrospettivo bensì prospettico.
All’inizio degli anni ottanta (giusto quando Dessì – reduce dalle esperienze, negli anni settanta, coi teatranti della Gaia scienza Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi – cominciava un percorso autonomo che gli avrebbe fatto incontrare i compagni del Pastificio, la «scuola di San Lorenzo» dei Bianchi e dei Ceccobelli, dei Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella e Tirelli), proprio Sestante Alberto Burri intitolava un suo ciclo di grandi Cellotex. Quel titolo, agli ex Cantieri della Giudecca a Venezia, alludeva direttamente alla topica «marina». Anche se non credo Dessì abbia pensato a questo precedente, e se il Sestante di Burri non è certo fra i suoi capolavori, una similitudine c’è: quando quei gran pavesi squillanti di colori vennero collocati nei Seccatoi di Città di Castello, essi si giustapposero al ben diversamente eloquente, e di poco precedente, Viaggio col quale Burri si era «antologizzato». Il viaggio e Sestante, l’uno a fronte dell’altro, indicavano la volontà di narrarsi, e anche mitologizzarsi, senza voler fare di sé un fatto compiuto. Erano un punto e a capo.
Punto a capo, proprio, s’intitolava nel 1987 un lavoro di Dessì che segnava una cesura netta con quanto precedeva. Una svolta del respiro. Sino ad allora la riscoperta della pittura – da parte sua come di altri del Pastificio – era coincisa coll’interiorizzazione, anziché la polemica negazione, del metalinguaggio della precedente generazione «concettuale». Ben più rumorosa, si capisce, la contrapposizione frontale dei fratelli separati (ma in tanti luoghi solidali) della Transavaguardia. Decisamente più tortuoso il percorso di Dessì: nel suo primo decennio mortificando quella dimensione del colore che i Transavaguardisti riabbracciavano, invece, famelici ed entusiasti. È il suo «lato notturno», ombroso ed enigmatico, su cui ha insistito Danilo Eccher. Ma con Punto a capo deflagrava il colore; anzi un colore, in particolare, col quale s’è spesso identificata, da allora, la sua ricerca: il giallo. Nell’alfabeto cromatico di Kandinskij, è questo il più caldo e vitale dei colori, e l’emblema della sua ricerca intersemiotica, pentecostale: Il suono giallo s’intitolava il suo dramma concettuale ispirato al Gesamtkunstwerk wagneriano (un paio d’anni fa messo in scena da Alessandro Solbiati, al Teatro Comunale di Bologna, con le scene proprio di Dessì: e un passaggio decisivo, nel viaggio di Dessì, è rappresentato dalle scene per il Parsifal diretto da Abbado, per la regia di Peter Stein, a Salisburgo nel 2002).
Fra le opere-ónfalos di Sestante (il titolo gioca altresì collo stare a sé, il fare i conti con se stesso: riprendendo il filo di passate ricapitolazioni come Vis-a-vis o tu x tu) c’è View del 2012: vasto pannello modulare nel quale parrebbe di nuovo negata l’«apertura» del colore, a capofitto in una sinfonia di grigi a carboncino (lo stesso moto psichico si osserva nei più recenti olî dei Conversation pieces, «scene» di un teatro tutto mentale). Se la si osserva da vicino, però, ci si rende conto di come View sia una vera e propria quadreria, in ciò simile alla tradizione dei meta-quadri «d’atelier». Una «mostra personale» appunto: un’autobiografia dentro un’autobiografia o, evitando l’ominosa dizione «retrospettiva», un’introspettiva.
Un moto doppio e a vettore invertito, un chiasmo, è del resto sempre stato osservabile nell’ispirazione di Dessì – stando almeno al più bel saggio che abbia letto su di lui, quello di Lorand Hegyi del ’94. Una contrastante, manieristica tensione a guardare il mondo «fuori» e al tempo stesso a barricarsi nella propria trincea mentale: guardando «dentro» di sé, appunto. Convinti magari che proprio la specola dell’io – come nella poesia del pressoché coetaneo Valerio Magrelli, che tante affinità mostra col suo percorso – sia per eccellenza il luogo dove può «piovere dentro a l’alta fantasia» (per dirla col Dante fatto proprio da Calvino).
Ad accogliere il visitatore di Sestante – nella sala della galleria tutta aperta sulla città – c’è lo Studio giallo del 2003. Un grande encausto di due metri per tre ci mostra il luogo mentale da cui proviene tutto il resto; due finestroni fanno da quinte della scena, ma il colore che ci invade le retine non viene da lì; piuttosto, si direbbe, da un’apertura più piccola al centro, che sovrasta il tavolo da lavoro aggettando lievemente verso di noi (con quello «sfondamento» sempre più spesso ricercato da Dessì, sino allo spettacolare Punto vero a sua volta esposto a Bologna). È questo il luogo dove trionfa la luce della mente. Una luce che ha il colore di sempre: un giallo intenso, luminoso sì ma non immacolato, non incendiato di solarità affermativa. Piuttosto dubbioso, introverso, percorso da una vena d’ombra. La memoria delle pieghe dalle quali proviene, si proviene.