Gianni Da Campo, nato a Venezia nel 1943, morto a Venezia qualche giorno fa: un cineasta che, per chi scrive, stava a due passi, eppure era rimasto a lungo nascosto, incontrato occasionalmente a Gemona della cui Cineteca (e personalmente di Livio Jacob) era amico e depositante; ma anche dopo avergli dedicato l’anno scorso a Trieste un omaggio «completo» ai Mille occhi mi appare percorso da segreti. Un’opera di pochissimi film (tre lungometraggi e un cortometraggio, tra il 1966 e il 1986) perché per lui ogni film nasceva da una «confessata» necessità, mentre la sua passione per il cinema (anche se talvolta potevo sentirla lontanissima nelle scelte e nelle esclusioni) si era manifestata lungo tutta la vita, e come accade alle grandi passioni doveva trovare un centro che assorbisse il resto.

Per lui questo centro è stata Marina Vlady, e il film italiano di lei L’età dell’amore, realizzato nel 1953 da Lionello De Felice, è stato il luogo della rivelazione. Mi ha fatto vedere il film in una appena discreta copia in vhs da un remoto passaggio su una piccola tv privata, e gliene sarò sempre grato perché si tratta davvero di un film bellissimo. Gianni ha cercato invano e in questi anni di arrivare a un «restauro» del film e a una sua proiezione a 35mm: coproduzione italo-francese i cui materiali sopravvissuti sono dormienti in un laboratorio per l’impossibilità di accedervi, film di cui né la Cineteca Nazionale né le altre italiane hanno nulla, il film attende che ormai in un omaggio postumo a Gianni (e a De Felice, altro cineasta da riscoprire) possa riuscire a ripresentarlo la Ripley’s Film, che con l’edizione dvd di Il sapore del grano ha avviato la riscoperta del cinema di Da Campo (e con Cento anni d’amore quella di De Felice).

Possiamo purtroppo essere certi che dopo la morte di Gianni la sua presenza resterà meno nascosta che in vita. La Cineteca del Friuli pubblicherà il volume incompiuto che stava scrivendo da anni, riscrittura del suo cinema e del suo rapporto con Marina Vlady (di cui era stato anche il traduttore italiano per il volume Vladimir il volo interrotto che Marina dedicò al suo rapporto con Vladimir Vissotskij, pubblicato da Marsilio nel 1990, ormai esaurito e da ristampare). Per la casa editrice veneziana Gianni aveva anche tradotto il volume di Stanley G. Eskin su Georges Simenon. Da Campo considerava quella per Simenon la sua principale competenza professionale. Si potrebbe dire che al secondo posto c’era l’insegnamento nelle scuole medie, di cui Il sapore del grano diventa il prolungamento nel cinema, maggior film italiano sulla scuola con Diario di un maestro di De Seta. Il cinema quindi arriva come approdo di una vita fatta di passioni e sensibilità. Andrebbe aggiunto molto sul suo accanimento da collezionista. Ma non può essere dimenticata tra le sue passioni maggiori quella per l’opera di Valerio Zurlini, di cui era stato amico dopo averlo conosciuto su schermo vedendo nel 1961 La ragazza con la valigia, l’altro film che ha segnato la sua vita e la sua opera cinematografica: il primo lungometraggio Pagine chiuse è dedicato a Zurlini, che fu supervisore non accreditato al montaggio; il secondo film La ragazza di passaggio lo richiama sin dal titolo; l’ultimo lungometraggio Il sapore del grano è dedicato alla memoria di Zurlini, e vi si legge un brano di Cronaca familiare di Pratolini. Della versione cinematografica di questo romanzo Gianni vide subito alla Mostra di Venezia la prima versione più lunga, ed è merito della sua segnalazione se nell’omaggio a Zurlini ai Mille occhi abbiamo presentato questa versione più lunga e più bella, e ora la riprenderemo con Roberto Turigliatto a Locarno nella retrospettiva Titanus.

Quando l’anno scorso ebbi modo di vedere su schermo a Trieste l’intera opera di Da Campo mi resi finalmente conto della incomparabilmente forte stranezza del suo cinema. Gli stessi discorsi introduttivi del regista, amabili e molto apprezzati dal pubblico, rischiavano di dare false piste «umanitarie» e «liberatorie» rispetto all’impossibilità dei film a risolversi in un unico senso. Il panteismo in cui vuole risolversi lo sguardo omosessuale dell’ultimo film diventava (come ben osservò Fulvio Baglivi dopo la proiezione) una vera macchina cronenberghiana del corpo. L’esordio con Pagine chiuse subito apprezzato dalle intelligenze critiche di Jacques Lourcelles e Pietro Bianchi, trattiene tutto il suo fuoco da «scorticato vivo». Soprattutto mi colpì il film intermedio, La ragazza di passaggio, quello di cui meno ero convinto in precedenza, come non lo fu Zurlini che lo considerò un film râté rispetto al progetto di cui aveva letto e sostenuto la sceneggiatura; come non lo fu a suo tempo Roberto Silvestri che considerò persino disturbante la presenza quasi transgender della protagonista femminile. Orbene, visto oggi La ragazza di passaggio è forse non solo il più bel film su Venezia (lo diciamo senza dimenticare Mankiewicz, Rousseau o Minnelli) ma uno dei grandi film sull’impossibilità che l’amore trovi un centro.

Il centro Gianni l’aveva posto nella presenza a distanza di Marina Vlady, che del suo secondo film avrebbe dovuto essere protagonista ma vi appare solo nelle foto sulle pareti; e finalmente compare nel terzo film come una presenza stranamente odiatamata. L’anno scorso Marina ha finalmente girato lei da autrice un film a casa di Da Campo, e attendiamo con ansia di vederlo, ora che Gianni non potrà che riapparirci su schermo.