Per il paradosso che un filosofo assegnava all’astuzia della Storia, è probabile che il nome di Gianni Brera oggi resista nel senso comune più per la qualità della scrittura che non per la fama, un tempo enorme, di giornalista sportivo e di teorico del calcio all’italiana.

Scomparso nel dicembre del ’92, i suoi apici verbali (l’epiteto di «abatino» affibbiato a Rivera, quello di «Rombo di tuono» dedicato a Luigi Riva, o neologismi quali «catenaccio», «melina») sono stati così profondamente metabolizzati da rendersi, oramai, anonimi e persino stereotipi.

Ma c’è un Brera, appunto, che gli appassionati e i lettori fedelissimi (Il Giorno impennava nelle tirature il lunedì, la Repubblica si può dire abbia inaugurato per lui il settimo numero) avevano già allora intravisto o indovinato nelle scritture a latere in cui si squadernava l’ampiezza sorprendente dei suoi interessi e delle sue cognizioni: non solo le altre discipline sportive (l’atletica leggera, suo amore primordiale, la boxe, il ciclismo cui avrebbe riservato i libri più compiuti, Addio bicicletta, ’64, e Coppi e il diavolo, ’81) ma anche la storia patria della fin troppo amata Lombardia, la caccia e la pesca nonché l’universo enogastronomico di cui è testimonianza un libro singolare, La pacciada («La spanciata», ’73), scritto a quattro mani con Luigi Veronelli, penna antipode alla sua, cioè magra e affilata.

Di un tale scibile non solo ridondavano gli articoli della domenica e del lunedì, ma specialmente il martedì («Guerin Sportivo», lenzuolo verde profumato di piombo) la rubrica di posta intitolata L’Arcimatto da cui il suo attento biografo, lo scrittore lodigiano Andrea Maietti, avrebbe tratto due volumi antologici per Baldini & Castoldi. Quanto a ciò, Brera in persona aveva fornito la prova e contrario del suo livello di scrittore ostinandosi a scrivere romanzi (Il corpo della ragassa, ’69 Naso bugiardo, ’77, Il mio vescovo e le animalesse, ’83) di caratura modestissima, insomma dei bozzetti in cui smoriva l’eredità dei Bertolazzi, dei De Marchi e degli scapigliati: qualcuno doveva avergli suggerito, e lui l’aveva certamente introiettato, che in Italia per essere riconosciuti scrittori bisogna pubblicare dei romanzi.

Non era lì ma era invece nelle partiture disperse e apparentemente sciamannate l’autore che un paio di anni fa (al convegno della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori per l’acquisizione del suo archivio) un filologo del rango di Franco Contorbia definiva senz’altro un classico del nostro Novecento.

Dunque non un Gadda spiegato al popolo, per il suo stile ibrido/mescidato ai limiti dell’espressionismo, come lo volle a suo tempo un improvvido Umberto Eco ma, semmai, «un saggista, un costruttore di pure invenzioni, di squisiti arbitrii di intelligenza» come invece lo volle Cesare Garboli in uno smagliante contributo (Gli impulsi distruttivi di Gianni Brera, «Paragone-Letteratura», 18, 1966) purtroppo mai ripreso in volume.

Chi oggi legga, a tanta distanza di tempo, i libri che a cura di Paolo Brera viene rieditando la BookTime di Milano ne ha la piena e riposata conferma, peraltro propiziata da una antologia, Il principe della zolla Grandi partite, corse in bicicletta, nebbie padane. Cinquant’anni di giornalismo (presentazione di Paolo Brera, Il Saggiatore, «La Cultura», pp. 299, euro 19.00), che uscì vent’anni fa, e oggi opportunamente riproposta, a cura di Gianni Mura (cui si deve l’aver definito la nostra condizione postuma come quella dei senzabrera).

Il lungo sottotitolo della antologia ne perimetra la capienza, il libero assortimento dei testi, senza preoccupazioni di cronologia e di raccordi tematici, asseconda la ampiezza del diorama breriano.

Mura asserisce di avere scelto d’acchito e in base alla memoria personale di lettore e di complice in un lungo sodalizio ma, in realtà, non sbaglia un colpo e sembra aver rammemorato una serie continua di clic spitzeriani, vale a dire porzioni testuali (una sessantina fra cronache, ritratti, memorie, epinici, vere e proprie expertises) capaci volta a volta di restituire, proprio nella loro costitutiva parzialità, una totalità d’autore. Il taglio sincronico, in questo, recupera la disseminazione diacronica e sottolinea i tratti sia dello stile sia dell’inventiva breriana.

Ad apertura di pagina, se ne possono isolare i fotogrammi capitali: il Po (padre Po) e l’atavica umiltà della Bassa in cui è nato e cui sempre ha guardato con affetto struggente; i maestri (Manzoni, cui è dedicato un intero pannello biografico, Don Lisander, e l’odiosamato Gadda); i volti incontrati nella lunga vicenda di cronista sportivo (il ciclista Pavesi, il discobolo Consolini, un Pelé riletto alla luce lunare di Leopardi); gli eventi raccontati dal vivo e per lo più scritti a braccio (un antico Vasas-Inter da Budapest, il leggendario Italia-Germania del ’70 da Città del Messico); infine le passioni e i vizi di una esistenza dominata dal lavoro eppure di continuo reinventata alla stregua di una dilettazione morosa (col senso della commensalità, gli amici, la cucina, il vino, il fumo).

C’è un genere però che riassume e stilizza la letteratura breriana, il necrologio, dove si combinano l’arte del ritratto in tondo e il flusso ritmico della rimembranza.

Nel Principe della zolla se ne contano diversi, relativi sia ai sodali del football (Giuseppe Meazza, l’eroe eponimo, Nereo Rocco, braccio secolare della filosofia difensivista) sia ai colleghi giornalisti (splendido, arreso a una istintiva commozione, quello scritto per Emilio Violanti, critico raffinato della Gazzetta dello Sport, troppo presto perduto).

Magari non ci aspetteremmo il necrologio di un poeta, eppure è stato Gianni Brera a dettare le parole più equanimi, più vivide, nel giugno 1968, per la scomparsa di Salvatore Quasimodo: «Era un arabo che cantava da greco. Il profilo da uccello palustre, due baffi secenteschi per ridurre, penso, l’imperiosa imponenza del becco. Dicevano tanto male di lui come uomo che doveva essere molto buono e grande. Questa è l’Italia dove i poeti gobbi e disperati muoiono di intossicazione da sorbetto. Insignito del Nobel, si disse che era stato merito di Nordhal, calciatore del Milan. Si scrisse che a caval donato non si guarda in bocca. Partenope Sera teneva per Montale che avrebbe voluto cantare da baritono».

Tale è l’attitudine all’epinicio che Brera arriva a scriverne uno neanche per la fine di una esistenza ma per il drammatico interrompersi della vita sportiva di un atleta prediletto, ormeggiando il più celebre fra i testi funebri di Garcia Lorca; così comincia infatti il suo Lamento per Riva, del ’76: «La notizia del grave incidente occorso a Luigi Riva mi è discesa nell’anima a tradimento, come un’amara colata di assenzio. Istintivamente ho riudito i lamenti di Lorca (que no me dejas veerlo) per il suo amico Ignacio riverso nell’arena. Egli stesso, con voce roca ma ferma, si è raccomandato che non ne facessimo un dramma. Era però Luis Riva l’atleta grande e famoso che aveva pudore di mostrarsi, per una volta, debole come gli altri, lui che della vita ha il concetto tragico di chi ha dovuto forzare il destino».

Ecco, forse è lo stigma rinvenuto nei gesti del campione più grande, forse proprio il pudore è la cifra che caratterizza sottotraccia la pagina, ogni pagina, di Gianni Brera, il segreto di una scrittura per cinquant’anni così sovranamente sperperata.