Evento speciale di apertura della Settimana della Critica è Passatempo di Gianni Amelio interpretato da Renato Carpentieri e dall’esordiente Daouda Sissoko, un cortometraggio folgorante per la quantità di elementi che riesce a mettere in scena, una vasta gamma di sensazioni dall’attesa, allo spiazzamento, alla paura, alla vertigine e insieme alta lezione di cinema sugli spazi, i tempi, i volti. Onirico e politico, a partire da un passatempo d’altri tempi come le parole crociate

Già nei primi secondi l’ambientazione svela l’universo in cui stiamo entrando

L’ho fatto con innocenza totale. Innocenza per un regista è un ossimoro, non esiste un regista innocente. L’ho scritto in un’ora, durante un viaggio in treno.

Leggiamo nei titoli che è stato fatto con gli studenti di Bobbio, della scuola di Marco Bellocchio

Sono stato due volte a Bobbio per fare una masterclasss e l’anno scorso Bellocchio mi ha chiesto se volevo fare un corto con i ragazzi. Non ne avevo mai girato uno, ma quando si deve girare occorre una troupe ed io ho portato una vera troupe, la stessa che mi segue da La Tenerezza ad Hammamet, più la novità della presenza di mio figlio (Luan Amelio UJkaj, ndr) come direttore della fotografia per la prima volta su un set di finzione. Mi è servito come provino: quando faccio un provino lo faccio anche a me per capire quale sarà il mio rapporto con gli attori, e così ho fatto con lui.

Renato Carpentieri e Daouda Sissoko

 

In effetti hai cominciato con il grande cinema.

Nessuno mi ha mai detto di fare il piccolo formato. Se fai una scuola il corto serve come esercitazione, io ho cominciato con il grande cinema, ho cominciato anche come «negro» scrivendo una quantità di sceneggiature che firmavano altri. Insegnando al Centro Sperimentale dagli anni ’80 fa parte del mio corso insegnare a fare corti. E sono diventati bravi se alla Sic hanno scelto due opere dei miei allievi. Io lo concepisco non come film breve, ma con una sua perfezione di tempi molto più rigorosa del lungometraggio dove puoi permetterti anche dieci minuti di troppo, mentre in un corto quei secondi si sentono. Devi pesare i dialoghi, le immagini, devi fare in modo che non ci sia qualcosa di ridondante.

Senza svelare il racconto le scene nascono una dall’altra, come uscite da incubi che però fanno percepire la realtàù

Solo l’ultima sequenza è realistica, le altre sono totalmente allegoriche. L’allegoria è bella da praticare al cinema, perché non è oscura come il simbolo, la percepisci come realistica, non come una sottolineatura. Il racconto allegorico lo trovi nell’ultimo Buñuel, quando scriveva con Carrière, come nel Fantasma della libertà quando c’è allarme per la bambina scomparsa, ma la bambina è lì presente o nel Fascino discreto della borghesia dove un racconto sta dentro un altro racconto, perché sono tutte verità e tutte bugie e nessun passaggio si può mostrare come è: qualcuno si sveglia ed è vestito da prete, mentre prima lo avevi visto in borghese.

Perché mettere in scena le parole crociate?

È il gioco dell’enigmistica al rovescio, un elemento debitrice della letteratura, un po’ di Borges. un po’ di Cortazar, quella letteratura che ci piaceva da giovani, o Calvino per citare un italiano. Credo che se c’è un piano che mostrerò è il rigore della costruzione.

Un altro «oggetto di scena» è la pistola. Che ruolo gli dai?

La pistola è usata come arma non di punizione ma di autopunizione: nella prima sequenza il protagonista implora di dare una soluzione, è come un partigiano di un mondo che obblighi ad uccidere, un potere che ha dato una libertà sbagliata.

Un’altra arma potente possono essere le parole

Nel mio racconto la parola è importante perché in fondo è un gioco dire prima la soluzione e poi dare la spiegazione, uno spiraglio per farti entrare nel senso politico del racconto. Non ho mai fatto un film politico come questo: senza fare prediche, senza montare su un palco, penso che si parli dell’Italia che ci circonda, con tutte le paure che ci hanno reso disumani, all’annientamento della persona per legge.
L’ultima battuta l’ho trovata veramente su un fascicolo dell’Enigmistica: «chi guida il carro da guerra»: il professore non riesce a cogliere immediatamente la definizione, forse c’è qualcuno che guida il carro da guerra al quale si aggrappano quelli che non hanno coscienza, una guerra fatta alla natura, a noi stessi, al degrado.