«Da spettatore penso che il pubblico della sala cinematografica abbia rispettato in ogni modo le misure di sicurezza: mascherine indossate, lontananze rispettate… E allora mi chiedo dove sia il problema, se non il fatto che siamo i più ’deboli’». Gianni Amelio, regista e sceneggiatore – il suo Hammamet è uscito poco prima che esplodesse la pandemia – è fra i firmatari dell’appello a Franceschini perché non venissero chiusi cinema e teatri. Un appello caduto nel vuoto e a cui ieri il ministro ha risposto suggerendo che si «stesse sottovalutando» il pericolo della crescita esponenziale della pandemia.

Perché non bisognava chiudere?
È un argomento spinoso ma bisogna essere lucidi nella risposta. Il danno non veniva dai cinema aperti, perché c’è serietà nei controlli e una forte coscienza già da parte di chi si sposta da casa e va al cinema: nelle sale che frequento – o nei teatri e nelle sale da concerto – non ho visto nulla di preoccupante. Mentre così non è in altre situazioni: la più grave di tutte è quella dei trasporti. Io viaggio in metro e se non ci sarà un aumento dei mezzi credo che da lì nasceranno le cose peggiori. E non so come si possa equiparare una sala cinematografica, che è educata alla distanza, a quello che accade altrove. Tra l’altro siamo reduci da due festival uno dopo l’altro – Venezia e Roma – e si sa che i festival corrispondono alla moltiplicazione degli spettatori. Eppure non si è sentito che a Roma o Venezia siano sorti focolai pericolosi.

Cosa pensa della risposta di Franceschini alle critiche che ha ricevuto?
Non la trovo giusta. Ha ragione quando dice che siamo in un’emergenza gravissima. Però nelle sale cinematografiche o teatrali non succede quello che paventano. Soprattutto con i tempi che corrono in termini cinematografici: leggere gli incassi fa stringere il cuore. Dicono che la chiusura sarà una cosa di breve durata, ma per un film o una sala – o un teatro – è comunque un colpo di grazia tremendo. Ed è ingiusto, non lucido, non calcolato. Ci sono dei settori, come quello dello sport, che per tantissime ragioni vengono «sorvegliati» in modo più blando.

Il ministro sostiene però che non sono state fatte gerarchie.
Io non so come Franceschini possa dirlo. Sono state fatte e si vede: si è colpito il più debole, nonché il più «educato». Mi sembra davvero un autogol quello del ministro, soprattutto per le dichiarazioni che hanno accompagnato l’avvenuta chiusura.

Quali saranno le ricadute per il cinema italiano?
Saranno terribili, la chiusura delle sale è la dimostrazione di quanto sia tenuto in poco conto il mestiere che facciamo – e non solo noi registi o sceneggiatori, ma le centinaia di migliaia di maestranze che da un giorno all’altro si trovano senza lavoro. Io vedo invece quanto il nostro settore sia controllato. Chi in questo momento ha la fortuna di lavorare se la tiene stretta, e quindi non lascia le cose al caso, fa controlli su controlli. Da parte dei lavoratori del cinema e del teatro c’è una grande coscienza della gravità del momento, e non capisco perché debba essere ripagata con la chiusura. Mi sembra un ragionare al contrario. Il pensiero deve obbligatoriamente andare alle tragedie, a chi muore, quindi serve la massima cura nel governare fin dove si può, e oltre, la pandemia. Però non cominciando «dal fondo», e cioè dai luoghi dove ci si infetta di meno.