Di fatto una parte consistente della didattica in presenza finisce 40 giorni dopo la ripartenza. È un fallimento del governo?

Sicuramente è un fallimento del sistema paese. Perché nel settore scolastico si è fatto qualcosa e si sono messe le scuole in condizioni di funzionare con relativa sicurezza, anche se ovviamente l’epidemia continua a esserci. Invece nei settori che avrebbero dovuto garantire il trasporto in sicurezza e la profilassi sanitaria si registra un fallimento del sistema. Spero si corra ai ripari il prima possibile. Continuare così per molti mesi causerebbe un grave danno alla formazione dei ragazzi, soprattutto di quelli che frequentano le scuole tecnico-professionali e dovrebbero svolgere molte ore di laboratorio.

Le nuove chiusure non si concentrano sui luoghi della produzione. Forse la scuola viene intesa come un luogo improduttivo?

C’è una sottovalutazione dell’importanza della scuola. Non è un luogo produttivo, ma formativo sì. La produzione serve nell’immediato, ma la scuola serve a garantire il futuro della società tra 10, 15 anni. Questo differente orizzonte temporale fa sì che si sottovaluti la sua rilevanza perché non se ne vedono subito gli effetti. Così facendo, però, si attua una politica cieca che crea i presupposti per uno sviluppo insoddisfacente o addirittura un regresso del paese.

Il Dpcm illustrato domenica dal premier Conte prevede che nelle superiori «almeno il 75%» della didattica sia a distanza (Dad). Cosa succede adesso?

Il passaggio al 75% non è automatico. Si ribadisce la procedura già fissata con il Dpcm di domenica scorsa: serve la comunicazione dell’amministrazione regionale o delle autorità sanitarie di una specifica situazione di rischio. Questa deve essere mandata all’ufficio scolastico regionale. Successivamente è necessaria una convocazione di un tavolo di confronto locale.

Non vale per tutte le scuole quindi.

No, ma naturalmente se la Regione fa una comunicazione che vale per tutto il territorio poi verrà applicata direttamente in tutti gli istituti di competenza.

A giugno aveva chiesto investimenti e assunzioni di personale per poter rimettere in moto la macchina. Sono stati fatti?

Sostanzialmente sì. Nelle scuole è stato introdotto il cosiddetto «organico Covid», un aumento del 10% del personale, circa 70mila unità in più. Lo stesso non si è fatto con le Asl che sono andate completamente in tilt e non sono in grado di effettuare monitoraggi e tracciamenti dei contatti.

Le scuole si sono rivelate dei potenziali focolai?

No, anzi è il contrario. I dati presentati dal ministero dell’Istruzione, che poi sono i dati dell’Istituto nazionale di sanità, dicono che sono luoghi sicuri dal punto di vista del contagio perché ci sono regole chiare che vengono sostanzialmente rispettate.

Però è stata posta la questione degli studenti che affollano i mezzi pubblici per raggiungere le scuole. Per evitare di tornare alla Dad cosa si sarebbe potuto fare?

Intanto potenziare il sistema dei trasporti pubblici. Già ad aprile il comitato tecnico scientifico ha puntualizzato che bisognava riorganizzarlo perché non era in condizioni di garantire sia il trasporto che la sicurezza. Purtroppo devo registrare che non si è fatto molto.

Nella vostra ultima presa di posizione citate gli studenti portatori di bisogni educativi speciali. Cosa comporta per loro la Dad?

La crescita e lo sviluppo di questi ragazzi sono favoriti dall’interazione con gli altri. Se li separiamo, se li teniamo lontani dal gruppo classe si può verificare addirittura un regresso delle loro condizioni