Incontro con uno dei più importanti studiosi al mondo di cinema d’animazione in occasione dell’uscita di Animation: A World History

Antefatto. Sono a Milano da poco. Mi trovo in un bel locale zona Lambrate. Lavoro al computer. Entrano due donne. Molto belle. Si siedono vicino. Faccio amicizia. Sono sorelle. Una lavora nella fotografia, l’altra nel cinema d’animazione. «Cinema d’animazione!?» Lei risponde qualcosa del tipo, «Si, si… sono qui con mia sorella, e guarda: sto proprio cercando in rete un po’ di materiali da far leggere ai miei studenti sull’argomento, qualcosa di chiaro e fondamentale.» A quel punto butto lì un nome: «perché non provi con Bendazzi? Sul suo sito trovi saggi che non sono più facilmente reperibili…» Sembra sorpresa. «Ah! Ma non conosco! Vediamo un po’…»

Stacco. A oggi, se devo stare a considerare la mia personale scoperta del lavoro di Giannalberto Bendazzi – qualcosa di avvenuto pochi mesi prima all’episodio – devo dire che il mio debito di riconoscenza va prima a Leonardo Carrano (autore di cinema d’animazione) e poi a Federico Rossin (storico del cinema e programmatore). Questo perché entrambi mi hanno parlato dell’ultima pubblicazione di Bendazzi, da poco uscita: Animation: A World History. Sono 1456 pagine totali, tre volumi, lavoro di taglio enciclopedico di anni, in inglese – per CRC Press, editore statunitense – e operazione che il nostro ha realizzato coinvolgendo diversi studiosi da diverse parti del mondo come collaboratori (supervising collaborators, contributors, columnists), allo scopo di creare un’opera in grado di mappare nello spazio (da Nord a Sud, da Ovest a Est) e narrare nel tempo (dagli inizi a oggi) il cinema d’animazione mondiale. Si va infatti dai primi tre periodi del primo volume – gli albori, prima di Fantasmagorie (Émile Cohl, 1908); dal 1908 al 1928; dal 1928 al 1951, cioè la cosiddetta Golden Age – alla cronologia del secondo volume – 1951-1960 (The Birth of a Style) e 1960-1991 (The Three Markets) – fino a quello definito come sesto periodo – 1991-2015 (Contemporary Times) – oggetto del terzo volume.

In sintesi: si tratta di una vera e propria impresa, quanto basta per accendere la curiosità e mettersi sulle tracce dell’autore.

E dunque: chi è Giannalberto Bendazzi?

Da quanto raccontato, qualcuno il cui lavoro sembrerebbe ancora non essere sufficientemente diffuso in Italia (ma a questo si può e si deve rimediare); da quanto leggibile in rete, tra biografia e pubblicazioni, l’impressione è invece che si tratti di uno dei massimi studiosi al mondo di cinema d’animazione (e di questo, forse, bisogna prendere semplicemente atto).

In merito, intanto, si può prendere come riferimento il sito: www.giannalbertobendazzi.com, attraverso cui si può venire a sapere della formazione giornalistica e indipendente del nostro (classe 1946), della sua esperienza accademica, tra Italia e estero, e poi scaricare e leggere gratuitamente sue pubblicazioni fuori commercio, così da scoprirne il rigore e apprezzarne il valore.

L’occasione dell’uscita di questa trilogia ha poi fatto il resto, nel senso che ci è sembrato doveroso incontrare l’autore per farlo parlare di sé e del lavoro in questione – anche nella speranza, visto il costo dei volumi (come spesso accade in certa editoria statunitense), di avere all’ascolto qualche editore serio, in grado di capire l’importanza di un lavoro scientifico del genere e realizzare una edizione italiana degna di questa storia…

Bendazzi secondo Bendazzi.

Puoi darci una definizione di te?

Credo di potermi definire un critico cinematografico a tutto tondo, perché mi sono occupato sia di cinema d’animazione sia di cinema dal vero, e spero di aver lasciato cose utili in ambo i campi.

Come nasce e si struttura l’operazione di questa trilogia?

Il libro è nato dal precedente Cartoons, mio libro che in italiano è esaurito da un pezzo ma che in inglese, invece, ha continuato ad essere venduto. L’editore mi chiese di aggiornarlo, perché ormai dopo il 1994 era diventato fuori moda. C’erano troppe cose nuove e troppi nomi e quindi c’era necessità di mettere in luce qualcosa che prima mancava. Nel 2006 ho alla fine firmato il contratto con l’editore che mi ha dato come clausola quella di scrivere il libro in lingua inglese. Un modo più comodo per rivedere tutto.

La ricerca è stata lunga e complicata, anche per ragioni di salute personali. Quindi su certi aspetti o Paesi difficili da raggiungere – che so: tipo Uzbekistan, o Tagikistan – e su certi autori su cui avevo timore di non essere obiettivo per diverse ragioni ho deciso di affidarmi a persone di fiducia come collaboratori (molte conoscenze personali, alcuni anche miei ex studenti universitari). Però io ho sempre fatto un lavoro di editing sui loro testi, perché volevo essere sicuro ci fosse una uniformità stilistica, perché è un progetto editoriale complesso nella sua architettura.

Cioè, è un libro difficile da mettere insieme perché ci sono note, approfondimenti, e quindi era necessario avere molta pazienza e una capacità strutturale. E la struttura stessa mi pare la cosa più importante in assoluto, perché fa di quest’opera una vera e propria storia.

Anche una specie di enciclopedia, direi, data la ripetizione di certe voci – penso alla divisione capitoli-paragrafi in continenti e Paesi – oppure la presenza di particolari box di approfondimento, oppure la specificità delle funzioni dei collaboratori…

Si perché io avrei voluto e potuto fare un lavoro più intellettualmente gratificante, ma alla prova dei fatti mi sono dovuto arrendere ad un lavoro di scavo, in base a quanto via via si andava scoprendo.

Voglio dire: siamo in una fase in cui uno non ci si può permettere di fare il «giocatore intellettuale», dal momento che c’è una ignoranza diffusissima della storia dell’animazione, anche da parte di addetti ai lavori.

Specifico però che quando dico ignoranza connoto il termine non in modo negativo, ma tecnico: cioè mancanza di conoscenza.

Ci dai un tuo punto di vista sugli studi sul cinema di animazione, una comparazione tra quelli italiani e quelli esteri?

C’è molto da fare. Esiste una Society for Animation Studies e però la mancanza o non copertura di tanti spazi è ancora grande. La Society esiste dal 1987 e ogni anno escono libri sull’animazione che, comunque, sono quasi sempre solo libri monotematici, e cioè: il cinema d’animazione del cineasta in quel momento più gettonato, che se non è Miyazaki Hayao è Tex Avery e così via.

A ogni modo il limite maggiore è questo: la mancanza di traduzioni. Anche di testi fondamentali e in lingue come l’inglese o il francese. Per esempio, so per certo che in russo sono stati pubblicati libri molto belli e importanti ma che io non conosco – lo dico perché ho avuto la fortuna di sapere di questa cosa tramite un amico russo che è riuscito a far breccia in queste pubblicazioni e scriverne. Ma i libri, comunque, rimangono pochi e faticano a raggiungere il pubblico in generale.

A maggior ragione in italiano tutto questo si sente di più, dal momento che la lingua franca è l’inglese, e gli studi vengono fatti o tradotti in inglese. Prima era il francese, ma quanto scritto o tradotto in francese rimane sostanzialmente circolante solo nei Paesi francofoni.

Il metodo Bendazzi: quasi una antropologia?

Detto altrimenti: come si dovrebbe studiare il cinema d’animazione?

Io l’ho studiato nel modo che ritenevo più adatto, perché lo storico tradizionale che ha a che fare, per dire, con la Prima Guerra Mondiale, ha materiali scritti a cui accedere, materiali che sono notevoli – tipo: documenti ufficiali, lettere di soldati, verbali di processi militari. Cioè, il lavoro d’archivio dello storico normale uno non può permetterselo nell’animazione perché l’animazione lascia pochissime tracce della sua vita. Quindi è indispensabile interrogare direttamente gli autori – io l’ho cominciato a fare fin dall’inizio, fino dai primi anni Settanta –, stare nella loro stessa «trincea» (festival, lavoro, polemiche giornalistiche e così via).

Ecco, io mi sono infiltrato nella «tribù» mondiale dell’animazione e sono stato trattato come membro a pieno titolo di questa. Sono stato testimone dei fatti e di chi esercitava il lavoro. Io questi fatti li ho vissuti o me li sono fatti raccontare, altrimenti non avrebbero lasciato una traccia consistente e sufficiente per costituire una storia.

Poi è chiaro: la mia è una storia personale, soggettiva, dal momento che non si può essere oggettivi in questo campo. Quindi ho cercato di essere onesto e dichiarare il mio punto di partenza.

Cinema d’animazione e Storia: il cinema d’animazione è in grado di offrire strumenti non solo per rappresentare ma anche per capire la Storia contemporanea?

Si perché quando il cinema d’animazione si rivolge a un pubblico ampio, quando cioè non è necessariamente un’opera d’autore, risponde a certe esigenze sociali e quindi comprova uno stato di cose nella società. Due esempi. Uno, i supereroi in America. Sono l’evidente incarnazione del Presidente degli Stati Uniti, il quale è vissuto dagli americani come «uno dei nostri» ma con più forza di noi, uno che aiuterà a sbrigare i problemi che abbiamo e anzi li risolverà, così da migliorare la nostra vita. L’altro esempio può essere il gigantismo dei robot giapponesi con le loro armi segrete e speciali – dove si sfiora la magia – che si opponevano alla distruzione del Pianeta, da parte di forze aliene. È la trasposizione in senso globale del dramma dell’atomica che gli era piovuta addosso con la Seconda Guerra Mondiale.

In ultimo, torniamo alla trilogia. Qualcos’altro da aggiungere?

L’animazione è un linguaggio, e in quanto tale è sì la base per raccontare favole ai bambini, ma lo è anche per creare opere d’arte altissime. L’animazione, specialmente quella “d’autore”, è una parte integrante della cultura mondiale che va riconosciuta e apprezzata. Io vedo l’animazione come un prodotto dell’ingegno che ancora oggi è malamente diffuso, incompreso per causa dei luoghi comuni e distrattamente preservato. Occorre mettere rimedio a tutto ciò.

E una delle maniere per cui questo accada è, appunto, conoscerne la storia.

Inoltre, questa trilogia vale come long-seller, nel senso che si venderà per trent’anni. Non lo dico perché me lo invento, ma perché il precedente Cartoons in lingua inglese è stato venduto regolarmente per 22 anni, dal 1994 al 2016.

È, in sostanza, un libro «di base».