«Eppure lo sapevamo anche noi l’odore delle stive, l’amaro del partire, lo sapevamo anche noi. E una lingua da disimparare e un’altra da imparare in fretta prima della bicicletta, lo sapevamo anche noi. E la nebbia di fiato alle vetrine, il tiepido del pane e l’onta di un rifiuto. Lo sapevamo anche noi questo guardare muto». Sono parole dedicate allo scrittore amico Jean Claude Izzo, le trovate in una canzone disseccata e meravigliosa che si intitola Ritals, su un disco che, a sua volta, si intitola Da questa parte del mare. E che il 19 aprile prossimo sarà anche un libro pubblicato da Einaudi. Parole che andrebbero scolpite sui muri e nelle coscienze, perché invece «l’amaro del partire» è diventato, nella Fortezza Europa, filo spinato, muri alzati, e la voglia spietata e sinistra di «non lasciarsi commuovere dagli occhi dei bambini migranti», come si sente dire in giro da qualche politico.

Gianmaria Testa ha perso la sua battaglia fiera e dignitosa contro un cancro non curabile, ma ci lascia parole come quelle che abbiamo segnalato in apertura di questo ricordo. Che dovrebbe e vorrebbe essere pudico e sottovoce come il suo protagonista, il piemontese cinquantasettenne con gli occhiali tondi, i baffi, e la voce bella e amara screziata da troppe sigarette e dalla fatica, sempre, di trovare le parole giuste. Perché Gianmaria Testa l’aveva scoperto, il piccolo segreto di Homo Sapiens: che siamo creature costruite sulle storie, e che le storie le costruiamo per lasciarle alla generazione che verrà e che ne sarà formata.

E sono favole, canzoni, racconti di dignità da non perdere e di dignità da ritrovare, come quella dei migranti a cui Testa regalò le parole del suo disco più bello. Tra le moltissime riserve di dignità di un uomo che aveva sempre tenuto la schiena dritta, anche in un mondo fatto di ammicchi e piccole concessioni «al mercato», quello della canzone d’autore, piace ricordarne una speciale. Gianmaria Testa non era contattabile e reperibile per spettacoli il giorno del 25 aprile, la festa degli italiani con la schiena dritta.

Era sempre in uno di quei santuari civili del suo Piemonte a cantare per i partigiani e a ricordare che se lui aveva avuto la piccola grande fortuna di poter tenere una chitarra in mano per raccontare le proprie storie in libertà, era per via di quei ragazzi che avevano rischiato e spesso perso la vita nella prima metà del secolo breve e spietato, il Novecento. Una religione civile che non ammetteva deroghe. Perché Gianmaria Testa, che all’inizio molti confusero, per snobismo e supponenza, solo con un bizzarro piemontese innamorato degli chansonniers cugini d’Oltralpe, una specie di Paolo Conte in minore, era una specie di roccia lucida e intransigente, quando si trattava di prendere posizione.

Il suo impegno era quello di una persona che non aveva mai perso i punti di riferimento della dignità civile: il valore del lavoro messo sotto scacco come fosse un orpello o un privilegio occasionale, il rispetto per gli altri, in primis quelli che vanno a cercare fortuna dove possono, perché gli esseri umani, come dicono gli antropologi, hanno i piedi per muoversi, non le radici, la necessità della memoria. Triade spessa assai, ma che in Testa decantava in voli di sublime, compatta leggerezza: perché Gianmaria Testa entrava sui palcoscenici e nelle cose da descrivere in punta di piedi, ma poi sferrava offensive di intelligenza poetica ai bordi della visionarietà. Ad esempio: non c’era quasi concerto in cui non riproponesse Miniera, la canzone sul minatore migrante che salva tutti gli altri, ma non se stesso, e che nelle mani di un altro sarebbe sembrata solo retorica da cartolina pencolante sui tre quarti di un valzerino.

Ad esempio: il ripercorrere qualche traccia lasciata dai passi di Fabrizio De André, restituendo ispida selvatichezza all’Hotel Supramonte. O accennando una canzone dimenticata ma costruita con pezzi di memoria sul palco dei teatri a fianco dell’amico di sempre, Erri De Luca, per raccontare le storie dello sconfitto ma «invincibile» Don Chisciotte. Con accanto, anche , l’altro amico il clarinettista jazz Gabriele Mirabassi.

Gianmaria Testa non ha mai avuto i grandi numeri nelle classifiche, ma neppure l’urgenza di fare uscire dischi a comando, perché il mercato li richiede. Scriveva e registrava quando aveva qualcosa da dire. Piace ricordarlo con l’uniforme da capostazione, in Piemonte, a scrivere nelle sere gelide le storie di mongolfiere e barchette di carta, e poi trovare la voglia e il coraggio di dire addio anche a quello, allo stipendio che arrivava tutti i mesi, e mettersi in gioco totalmente. Certo, il pubblico francese ed europeo s’era accorto di lui ben prima che gli annoiati italiani con buona dose di spocchia verso i cantautori.

Lui non se ne curava, e dopo aver flirtato con i ricordi della canzone francese e dello swing, aveva trovato la sua strada vera, un gioco da equilibrista maestro tra impegno civile e poesia e scrittura e anche per i bambini, perché l’uomo cresciuto nel Piemonte più duro e contadino era capace di struggenti capacità di ascolto, per i più piccoli, e di scrittura, per loro. Erano scaturiti dischi bellissimi come Altre Latitudini, il citato Da questa parte del mare, Vitamia. L’ultimo regalo Men At work, dal vivo. Si noti il titolo: lavori in corso. Gianmaria Testa sapeva trovare le parole giuste, e i cercatori di parole sono migliori dei cercatori d’oro, perché noi umani, si diceva, siamo creature fatte per ricevere e raccontare storie, non oro. E’ l’unico patrimonio che non ha degrado né abiezione.