«Non c’è più dogana al Brennero, rimane la frontiera. Passiamo senza sosta di dogana. Ognuno portandosi dentro, aperta, la sua frontiera». Sono parole che trovate nello scritto che introduce il nuovo cd di Gianmaria Testa. Doppio dal vivo in Germania, più dvd con un intero concerto torinese accluso, Men At Work. Che notoriamente vuol dire «lavori in corso»”, ma letteralmente sta a significare «uomini al lavoro». «È uno dei cartelli che si incontrano più spesso, sulle autostrade», racconta Testa, ma è anche un concetto a cui tiene molto, quello del lavoro: famiglia contadina piemontese vera, la fatica un giorno dopo l’altro. Al lavoro ha dedicato uno spettacolo con Battiston, [/ACM_2]18mila giorni- il pitone, per tutti quelli, sempre di più, che il lavoro lo avevano, e di colpo, previa e fetida letterina aziendale, non ce l’hanno più.
Ma anche se hai una chitarra fra le braccia, e delle parole che sono riflessione individuale ed al contempo universale, stai facendo un lavoro: «Perché in questo Paese non ci salverà nessun uomo della provvidenza, nessun Salvatore con la «S» maiuscola. Per questo, meditatamente, io dico che ognuno deve fare bene il suo lavoro, se riesce ad averlo. Anche le canzoni. Bisogna avere coscienza del lavoro ben fatto, giorno dopo giorno». Concetto ben diverso dal quel velenoso «Noi lavoriamo, gli altri vengono qui per delinquere» che qualche seminatore d’odio professionista ammantato di «radici» e «tradizione» sparge da decenni: «Guarda, questa questione delle radici mi fa imbufalire davvero. Io le mie radici profonde nel Basso Piemonte me le sento tutte, ma proprio perché sono profonde non ho nessun timore che qualcuno me le possa sradicare. Le radici sono un’apertura al mondo, non la fissità. È per questo che sono contento quando sono a New York: perché riconosco la prova generale delle convivenze possibili. Tornando alla dogana scomparsa del Brennero, ed alle frontiere: un conto sono le frontiere naturali, un conto quelle interiori. Nelle crisi, etiche prima che economiche, tendiamo a chiuderci, a rinserrarci dietro muri di sacchetti di sabbia. Serve esattamente il contrario.» Lo scrittore Bajani, nel suo bel libro sugli ultimi giorni di Tabucchi, gli mette in bocca queste parole, che ’l’ignoranza è un pieno, non un vuoto, è un muro, e i muri si possono solo scavalcare o abbattere, non riempire..’ «Vero. Ma io aggiungerei che c’è anche un’ignoranza vuota, ed è questa incolpevole e vuota ignoranza che ha fatto grande il danno di un ventennio berlusconiano». Testa, in questo disco hai recuperato anche canzoni scritte trentanni fa e oltre, come Lele, storia di una «maritata per necessità» calabrese nel Piemonte di cui scriveva Nuto Revelli… «Non canto certo tutte le canzoni che ho scritto quando ero giovane, ma solo quelle che hanno retto la prova del tempo nel saper trasmettere almeno l’impronta dell’emozione forte che le ha generate.».
Men At Work ha un’impronta che a volte ricorda quasi il rock acido, scelta voluta? «Le chitarre di Giancarlo Bianchetti a volte graffiano e ruggiscono, ma non potrebbe essere altrimenti, quando tratti di certi temi come il lavoro. E poi c’è anche la quota di libertà che giustamente ogni musicista che suona con me si prende sul palco». Un doppio disco dal vivo a poca distanza da un disco dal vivo in solitudine. Va contro ogni logica di marketing, no? «Certo, chi se ne frega. Io questo disco l’ho voluto fortemente, perché fotografa un momento di affiatamento speciale di quattro amici sul palco, e perché così posso far riascoltare a un pubblico più vasto canzoni che da tanto tempo non si trovano più, nei dischi originali. Meglio di Youtube, no? Aggiungo anche che io ho una certa idiosincrasia per i live: quello da solo è nato praticamente a mia insaputa, riascoltando una registrazione speciale di una serata speciale. Questo è il nero su bianco di un bel gruppo, spero. E se venderà dodici copie, pazienza.»