Due polizze sulla vita, stipulate da Gianfranco Fini a favore delle figlie per un valore di un milione, sequestrate su mandato della Direzione distrettuale Antimafia di Roma, per riciclaggio. È l’ennesimo capitombolo nella precipitazione infinita di un leader che per vent’anni è stato l’emblema della destra italiana e uno degli uomini più potenti del Paese: ministro degli Esteri, vice presidente del Consiglio, presidente della Camera, numero due del centrodestra nella lunga era segnata dalla centralità di Silvio Berlusconi. «Se l’istigazione al suicidio non fosse un reato gli consiglierei di suicidarsi», commenta impietoso l’ex amico e poi ex nemico Francesco Storace.

L’affaire è ancora e sempre quello partito dalla vendita sottocosto della casa di Montecarlo, proprietà An, a Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, allora seconda moglie del presidente Fini. L’ipotesi degli investigatori è che una banda, capitanata dal «re delle slot machines» Francesco Corallo e di cui faceva parte l’ex parlamentare Pdl Amedeo Labocetta, riciclasse i soldi ricavati dal mancato pagamento delle imposte sul gioco d’azzardo online e sulle slot per poi reinvestirli, una volta ripulito, in una serie di attività tra cui l’acquisto di immobili. In queste attività sarebbero stati coinvolti i Tulliani – incluso il padre di Elisabetta, Sergio – ai quali per questo, il 14 febbraio, sono stati confiscati beni per sette milioni di euro. La stessa vendita della casa di Montecarlo rientrerebbe in questo quadro.

Il sequestro di ieri segna un ulteriore passo nel coinvolgimento di Fini, almeno secondo gli inquirenti. L’ex presidente della Camera, ora indagato anche per riciclaggio, ha sempre affermato, e confermato nell’interrogatorio del 10 aprile scorso, di non saperne niente. Su questa base, la sua «assoluta estraneità», i legali hanno fatto sapere che si rivolgeranno al Tribunale del Riesame chiedendo il dissequestro delle polizze.

La gip Simonetta D’Alessandro, che ha firmato la disposizione di sequestro delle polizze, è di parere opposto: «Quella negatoria di Fini è del tutto inverosimile». Fini anzi, secondo gli investigatori, aveva «centralità progettuale e decisionale» nella vicenda e proprio lui decise la vendita della casa di Montecarlo «nella piena consapevolezza delle condizioni concordate da Corallo e dai Tulliani».
Il sequestro di ieri non è una pietra tombale politica sulla carriera di Gianfranco Fini. Quella era già stata posta dalla vicenda comunque scabrosissima di Montecarlo. Per questo, se anche Fini dovesse uscire pulito dalle ipotesi accusatorie più pesanti, dal punto di vista politico per lui cambierebbe poco.

La sua decadenza, così come quasi vent’anni prima la fulminea ascesa, siglano per intero la parabola del partito di destra radicale in Italia, a differenza di quanto verificatosi nella Lega, l’altra forza politica messa in ginocchio in seguito a vicende legate alla famiglia del capo.

Fini, con la mossa azzeccata di candidarsi a sindaco di Roma nel ’93 e poi con la forzatura dello scioglimento del Msi e della sua trasformazione in An, era stato capace di tenere insieme un partito tradizionalmente rissoso e diviso. Era l’uomo che aveva portato il partito di estrema destra, quello per decenni escluso dall’«arco costituzionale», come si diceva all’epoca, fuori dal ghetto e poi al governo. Per questo esercitava un potere assoluto nel partito. Le divisioni latenti sono però riesplose a partire dai primi anni 2000, quando Fini, al governo, ha perso la presa diretta sul partito. L’unificazione di fatto imposta da Arcore nel Pdl le ha poi moltiplicate, spostando verso Berlusconi alcuni dei principali dirigenti, come Gasparri e Matteoli.

Gli scandali che hanno travolto prima il Lazio e la giunta Polverini, venuti alla luce proprio in seguito alla guerra per bande poi lo stesso leader, dopo l’infausto secondo matrimonio con Elisabetta Tulliani, hanno trasformato l’ex Msi in un formicaio impazzito. Nessuno è oggi più universalmente impopolare di Fini in tutte le anime all’interno della vecchia An. E il suo declino ha coinciso con quello di un partito che, a differenza della Lega, non è stato capace di sopravvivere al suo capo.